Gregari si nasce o si diventa? Lo abbiamo chiesto a Fabio Sabatini, riconosciuto come uno degli ultimi uomini migliori al mondo. L’altruismo è nel suo DNA, ma il toscano ammette di essersi “costruito” questo ruolo, da quando nel 2006 è passato professionista in maglia Milram e ha imparato il difficile mestiere del “pesce pilota” lavorando con Ongarato e Velo per Alessandro Petacchi, a tutt’oggi il suo mentore. Il 33enne di Montecatini milita nella Deceuninck Quick Step dopo aver difeso anche i colori di Liquigas e Cannondale, lanciando verso tanti successi un giovane Peter Sagan, della Etixx, in cui era il penultimo uomo di Cavendish, e Quick Step, essendo catapulta vincente prima per Kittel e ora una garanzia per Elia Viviani. Nel 2019 sarà l’ombra del campione d’Italia e con lui è pronto a fare un ulteriore salto di qualità dopo una stagione da record.
Saba, il tuo 2019 è iniziato dall’Australia.
«Sì, disputerò lo stesso programma di Elia e siamo partiti con il piede giusto al Tour Down Under. Il 2018 è stato il massimo per la nostra squadra. Abbiamo vinto tanto e con tanti corridori diversi. La nostra forza è che ognuno sa benissimo cosa deve fare e dà l’anima, sia che debba tirare all’inizio della corsa o centrare il risultato dopo 200 km dal via, non ci sono “furbetti” che fanno saltare i piani fatti sul bus al mattino, come accade in altre squadre. Elia ha vinto 18 corse, erano tanti anni che nessuno vinceva così tanto. Ripetersi non è mai facile, ma sono fiducioso».
Dove può arrivare Elia?
«Migliorare annate superlative è difficile, ma vedendo come ha vinto, spesso con molta facilità, sono ottimista. È cresciuto in modo evidente, è diventato più esplosivo nella volata. Alla prima stagione con un treno tutto suo ha dimostrato quanto vale, quest’anno sono certo ci divertiremo ancora molto. In questa squadra sta sbocciando al meglio. Può raggiungere gli obiettivi che si è posto. Non posso dire oggi che vinceremo la Classicissima, ma darò il massimo per portarlo il più vicino possibile a realizzare il suo sogno: vincere la Milano-Sanremo. Intanto iniziamo a partire con il piede giusto».
Kittel ha sbagliato a non portarsi dietro degli uomini per il suo treno?
«Non lo so, ognuno fa le sue scelte. Magari economicamente gli è convenuto passare alla Katusha. Io avrei potuto seguirlo, come no, ma sono molto soddisfatto di dove sono, questa squadra è la mia famiglia. Sicuramente a Marcel non ha giovato andar via, i risultati parlano chiaro. Se il suo timore era di dover convivere con Gaviria, ora è andato via anche Fernando... Comunque sono convinto che quest’anno tornerà ad andare forte, non potremo sottovalutarlo».
Sei contento del ruolo che ti sei ritagliato?
«Moltissimo. Più persone mi fanno notare che potrei giocarmi le mie chance, ma a me non interessa vincere (magari) un paio di garette l’anno. Sono più soddisfatto a lasciare il mio capitano ai 200 metri e ad alzare le braccia al cielo con lui, certamente più spesso, in corse importanti. Mi sono costruito una carriera, non è arrivata per caso e dagli inizi a oggi rifarei tutto. Secondo me si nasce gregari, non si diventa. È una questione di altruismo, non tutti ci siamo portati. Essere gregario è nel mio DNA, così come in quello di Elia c’è scritto che è nato per essere un campione».
Non avresti voglia di disputare una volata tutta per te? Non hai mai vinto tra i professionisti...
«Io odio lo stress, non posso sentire la gara. Non lo do a vedere, ma se mi agito rendo meno. Il mio punto di forza è restare calmo, essendo l’ultimo uomo del treno devo mantenere la concentrazione e, se non siamo perfetti, cercare una soluzione improvvisata. Giù dalla bici sono vulcanico, ma negli ultimi chilometri di una corsa mi trasformo. Io la “sento” la volata. Ai due chilometri mi viene la pelle d’oca. Avere una squadra affiatata, con tecnici e compagni con cui scherzare mi aiuta a non disperdere energie inutilmente a causa dell’agitazione».
Qual è il segreto del “wolfpack” cioè della vostra squadra?
«Se siamo molto forti è perché abbiamo, oltre a ruoli ben definiti, tecnici in gamba nell’individuare i punti critici del finale di corsa. Per una volata abbiamo persone che studiano giorni, individuando i “check-point”, così che alla riunione del mattino in pochi minuti noi veniamo a sapere ogni dettaglio dei finali che ci aspettano. Se c’è un tombino nella curva a 200 metri dall’arrivo noi lo sappiamo grazie a questo lavoro quasi maniacale che ci permette di sbagliare il meno possibile».
Quanto sono cambiate le volate da quando sei professionista?
«Quando ho iniziato, ai tempi della Fassa Bortolo e della Domina Vacanze, di treni ce ne erano molti di più... Le squadre per i Grandi Giri avevano un solo capitano. Ora i punti World Tour contano così tanto che anche un team con un velocista molto competitivo deve portare qualcuno per fare classifica, anche se non può ambire che alla top 15. La conseguenza è che ci sono più trenini con meno elementi e la situazione è più difficile da gestire. Una volta si partiva ai tre chilometri, ora la volata deve essere più corta. Se la corsa si decide su uno stradone dritto iniziamo a lanciare lo sprint ai meno due dal traguardo perché abbiamo meno uomini su cui contare. Unica eccezione, se ci sono tante curve: prendete la seconda tappa del Giro vinta da Elia in Israele, lì abbiamo preso la testa a quattro km dalla fine».
Cosa succede dai 300 ai 150 metri?
«Un casino colossale, fa impressione la tensione e la velocità che assume il gruppo in quella fase della corsa. Bisogna avere un cuore grande e nervi saldi. Se hai paura, fai un altro mestiere. Io mi fido molto di chi è davanti a me (ora Morkov, prima Trentin) e dà indicazioni ai due o tre corridori che lo precedono. Io mi concentro solo sul velocista. Con Elia all’ultimo chilometro addirittura mi tolgo la radio per sentirlo meglio. Quando urla “Saba” vuol dire che è “nella merda”, si è perso, se invece non dice nulla vuol dire che è tutto ok».
Quando hai capito che eri portato ad essere l’ultimo uomo?
«Ci ho messo poco. All’inizio avevo tutto da imparare e con Petacchi è stato come andare all’università. Lavorando per lui ho messo a fuoco la capacità di tenere alta la velocità e tirare fuori dai guai il capitano. Considero Alessandro un fratello maggiore e un faro. Mi ha fatto crescere e tutt’oggi mi segue per la preparazione. Con tutti i miei capitani è stato bello lavorare, con qualcuno è stato più semplice, con altri meno, ma da tutti ho imparato qualcosa per diventare il corridore che sono oggi. Ora con Elia viene tutto naturale, anche perché arrivando dalla pista ha occhio e sa muoversi nei finali come pochi altri».
Il più difficile da lanciare?
«Marcel Kittel è potentissimo e quando ha spazio è indistruttibile, ma lo perdevo tante volte. Anche con Cavendish non è stato facile avere a che fare perché è molto legato a Renshaw. Ho grande amicizia e stima per lui, ma non siamo riusciti a integrarci al meglio con il suo gruppo. Da entrambi ho imparato qualcosa per costruire le volate ancora meglio di quanto facessi. Sagan invece è un funambolo, gli piaceva essere messo nella posizione giusta, poi ci pensava lui a saltare da una parte all’altra: in volata è un anarchico».
I momenti più importanti della tua carriera?
«Ogni vittoria dei miei capitani. Da giovane ho raccolto qualche secondo posto in tappe del Giro e della Vuelta, anche questo mi ha spinto a ritagliarmi questo ruolo. Se arrivi secondo tante volte vuol dire che non sei nato per vincere. Il periodo più duro l’ho vissuto nel 2013 quando ho subìto un brutto infortunio alla schiena. Ho visto la carriera passarmi davanti agli occhi, ma grazie alla famiglia e alla mia compagna è ormai solo un ricordo. Anche i momenti no servono per crescere».
Cosa ti spinge a correre in bici?
«L’adrenalina: finché l’avverto so che riesco a dare il cento per cento. L’unico aspetto che mi pesa di questa professione è stare lontano da mio figlio Jacopo, che ha sei anni e mezzo. Gli ho fatto provare la bicicletta perché me lo ha chiesto, andava a scuola mentre io ero al Giro e giocava con le figurine Panini, ma è durato poco. Un giorno mi ha detto: “babbo fallo te, per me è troppo faticoso”».
Il ciclismo è sempre stata una passione di famiglia.
«In casa non ho mai visto altro che biciclette. Papà Loretto è stato dilettante, ha vinto tanto. Quando il babbo mi vedeva un pallone tra i piedi me lo levava subito di mezzo. Ho iniziato a correre a sei anni, da G1. La mia prima bicicletta fu una Viner color ruggine. Ricordo che feci subito del casino con mio fratello Nico perché la sua era più bella, era giallo fluo e mi piaceva di più. Siamo molto legati, abbiamo un solo anno di differenza. Nel 2000 ebbe un grave incidente in motorino la settimana dopo che aveva vinto la Coppa d’Oro e finì in coma. Io avevo solo 16 anni, fu una botta».
“Una vittoria è anche mia. Una sconfitta di più”. Sono parole tue.
«È così. Se Elia non vince perdo anche io. O trovi quello più forte che ti batte meritatamente e allora alzi le mani, altrimenti, come ci è accaduto qualche volta quest’anno, quando non si riesce a vincere è perché abbiamo sbagliato qualcosa».
Cosa desideri per il tuo futuro?
«Penso di poter essere ancora competitivo per cinque anni pieni, ma ascolterò il mio fisico e valuterò le mie performance. Appenderò la bici al chiodo prima di far perdere il mio capitano. Sarebbe una sconfitta non essere più all’altezza nel mio lavoro. Chiuso con la bici mi concederò un anno sabbatico come fanno in tanti. La mia compagna Serena ha un ristorante-pasticceria, piacerebbe anche a me avviare un’attività nel mondo della ristorazione. Non mi dispiacerebbe nemmeno restare nel mondo del ciclismo, anche se appena smetterò l’idea di prendere un aereo e stare lontano da mio figlio sarà l’ultimo dei miei desideri. Vedremo, per ora è ancora presto».
da tuttoBICI di gennaio
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