Mi provo, mi misuro, forse mi infogno con i miei (e non solo) “vecchi tempi”. Confronto sempre intrigante, ancor più quando viene voglia di privilegiare la dizione “vecchi tempi” (magari voglia soltanto per via di una squallida base anagrafica, però sempre legittima) rispetto ad “ai miei vecchi tempi”, un “ai miei tempi”, più corto e ruvido: e non lo si fa soltanto per il timore di apparire scaduto, o quanto meno scadente.
Do per scontato che chi legge abbia capito l’assunto, e perigliosamente lo completo: intendo come “vecchi tempi” quelli giornalistici, anche perché il giornalismo (sportivo) ha riempito davvero larghissima parte della mia vita (e arridaje, riscivolo nell“ai miei vecchi tempi”), e intendo soprattutto il giornalismo ciclistico, quello che mi ha connotato per tanti anni. Perché in fondo ho cominciato a essere preso sul serio al giornale quando il 2 gennaio 1960 Fausto Coppi, anziché patire uno dei suoi soliti guai fisici superabili e superati, è morto all’ospedale di Tortona, dando così peso, triste ma fisiologico, al mio modesto reportage.
Quell’anno è stato per me anche l’anno giornalistico della mia prima Olimpiade di ventiquattro (Giochi invernali di Squaw Valley, California, Usa), del Tour vittorioso di Gastone Nencini, dell’Olimpiade estiva di Roma con vittoria del mio amico/fratello Livio Berruti. Due a due, se vogliamo, fra ciclismo e Olimpiade. E per me niente calcio da scrivere, da frequentare lavorativamente nel bene o nel male: ho vissuto la serie B 1959-60, quella della prima retrocessione del mio Toro da tifoso, da giornalista impotente, in redazione deriso dai colleghi juventini.
Pronti-via, ordunque. Per regola dialettica fissa, quando non anche per postulato o addirittura per dogma, i “vecchi tempi” sono migliori dei tempi nuovi e anche di tutti i tempi possibili: per ricordi belli, positivi, per forti echi lunghi, per profumi comunque di nostalgia in chi li ha vissuti, per invidia e voglia fissa di sospirare in chi adesso li vorrebbe vivere, sicuro che gli darebbero comunque più di ciò che passa il convento adesso, o semplicemente perché sì. O addirittura perché proprio sono stati migliori dei tempi attuali, lo diciamo noi dei vecchi tempi e lo dicono quelli dei tempi nuovi.
Ai miei vecchi tempi nel ciclismo furoreggiavano ancora i giornalisti cantori, alcuni magari sgrammaticati ma tutti innamorati di questo sport e tendenti a deificarlo. Di alcuni di loro sono stato giovane paggio. Come i poeti del dolce stil novo erano pazzi d’amore le loro donne e però, onde divinizzarle meglio, evitavano di frequentarle così da non rischiare di scoprirle, magari alla prova-palpeggio, troppo terrene, così i cantori evitavano di seguire da vicino i corridori, casomai li aspettavano sulle montagne scrutandoli da alti tornanti lontani e poi via verso l’arrivo, se c’era tempo passando al ristorantino, altrimenti arrivando alla località del traguardo in tempo per curare bene la prenotazione presso il meglio ristorantone per la grande cena.
Ai “miei vecchi tempi” il reportage doveva avere due pregi, o due caratteristiche (fate voi): essere lungo, visto che si dovevano riempire pagine su pagine del quotidiano, ed essere trasmesso sempre con urgenza, visto che le comunicazioni erano sempre un problema. La cosiddetta qualità era un optional, come anche la raccolta di elementi che arricchissero e intanto confermassero, rassodassero il resoconto (mica c’era la televisione a offrire tutto o quasi). Ai “miei vecchi tempi” si mangiava magari meglio (comunque senza inquinamenti alimentari) ma si dormiva sicuramente peggio, la rete alberghiera essendo ancora misera o nel migliore dei casi modesta. E quanto al dormire in auto durante la corsa (sto sempre parlando di giornalismo sportivo ciclistico), le vetture mica erano confortevoli, rassicuranti, rilassanti come quelle di adesso.
Ai miei vecchi tempi il giornalista del gruppo cantori era ritenuto una sorta di nume, i corridori si mettevano in coda per accedere a lui e omaggiarlo, le conferenze-stampa diciamo generalistiche, cioè con distribuzione di aria fritta, non erano ancora state inventate. Ciclisti illustri, campioni grandi mi hanno detto che pedalavano condizionati dal cantore che sul giornale poteva distruggerli o ulteriormente innalzarli.
Potrei andare avanti per tante righe ancora, dissacrando ma anche celebrando, criticando ma anche apprezzando. Per questa volta, per questo appuntamento credo sia cosa buona e giusta e persino bella il prospettare il tema, svolgerlo per una parte, inaugurare anche una riflessione (chiedo, spero troppo? se sì, mi scuso). A chi comunque vuole inchiodarmi con la domanda se i vecchi miei tempi erano migliori dei tempi attuali segnalo la Costituzione che sacralizza la libertà di pensiero, di opinioni, ma al tempo stesso scrivo qui che ho la risposta tranciante, assoluta, sicura, ferma, definitiva, dogmatica, perentoria, dirimente, assorbente, onnicomprensiva, iperconcludente: boh.
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