Giuda non avrebbe potuto fare di peggio. Un colpo sotto la cintura, una pugnalata alle spalle. Un tradimento bello e buono, uno strappo alle regole. Un salto mortale, un peccato capitale. Dopo dieci anni di esemplare professionismo – zero vittorie in carriera –, proprio nell’ultima corsa da stipendiato, Alan Marangoni ha ceduto alla tentazione e ha fatto quello che non aveva mai fatto e che non avrebbe mai dovuto fare. Vincere.
Nel 2009, l’anno dell’esordio (Csf Group-Navigare), dopo 7398,4 km in 57 giorni di corsa, Alan aveva colto un quinto posto nella settima tappa del Tour of Britain. Un peccato di gioventù.
Nel 2010, l’anno della conferma (Colnago-Csf Inox), nei 15770,95 km dei 76 giorni di corsa, non era andato più in là del nono posto ai campionati italiani a cronometro. Promettente.
Nel 2011, l’anno del decollo (Liquigas-Cannondale), durante i 16535,4 km degli 88 giorni di corsa, era salito sul podio dei campionati italiani a cronometro (terzo) e del cronoprologo a squadre al Giro d’Italia (sempre terzo). Mascalzoncello.
Nel 2012, l’anno della maturità (Liquigas-Cannondale), 9188,89 km in 40 giorni di corsa, a parte il quinto posto nella cronosquadre del Tour of Qatar e il sesto nel campionato italiano a cronometro, non aveva corso altri rischi. Bravo.
Nel 2013, l’anno da Rambo (Cannondale), 24484,03 km in 91 giorni di corsa, se non si contassero un quarto nella cronosquadre alla Tirreno-Adriatico e un settimo nel campionato italiano a cronometro, era riuscito a non entrare mai nei primi 10. Bravissimo.
Nel 2014, l’anno da Rambo 2 (Cannondale), 22518,36 km in 87 giorni di corsa, si era macchiato di un terzo posto ai campionati italiani a cronometro e di un nono a quelli mondiali. Pazienza.
Nel 2015, l’anno delle lacrime (Cannondale-Garmin), 11317,3 km in 71 giorni di corsa, si era reso colpevole del quarto posto non solo nei campionati italiani a cronometro, ma anche nella decima tappa del Giro d’Italia, la Civitanova Marche-Forlì, di cui non si può scrivere nulla, qui, perché ancora coperta da segreto istruttorio e letterario. Ammonito.
Nel 2016, l’anno della delusione (Cannondale), 6878,57 km in 45 giorni di corsa, ci sarebbe stato il primo posto nella cronosquadre della prima tappa allo Czech Cycling Tour, ma una speciale commissione di inchiesta aveva poi stabilito che non si trattava di colpa sua. Assolto per insufficienza di prove.
Nel 2017, l’anno dello sbandamento (Nippo-Vini Fantini), 12518,85 in 88 giorni di corsa, era sprofondato con un secondo posto nella classifica dei gran premi della montagna alla Tirreno-Adriatico, a un altro secondo posto nella prima tappa del Tour of Thailand e al terzo nella classifica generale. Ammonito con diffida.
Nel 2018, l’anno dell’addio alle corse da immacolato (Nippo-Vini Fantini-Europa Ovini), 8761,06 km in 71 giorni di corsa, ha perso la testa. Dopo aver messo in crisi mistica chi credeva in lui con due settimi posti (seconda tappa e classifica finale) nella Hammer Stavanger, ha peccato con un quarto posto nella nona e ultima tappa del Tour of Hainan, e ha addirittura vinto il Tour de Okinawa. Perdipiù festeggiandosi, osannandosi, celebrandosi, felicitandosi, battendosi ripetutamente il pugno destro sul cuore. Dunque: espulso. Espulso e squalificato a vita dalla mia squadra. Di cui Alan Marangoni era – pensa te – il capitano morale, il leader naturale, il comandante esemplare. E, sia chiaro, a nulla varranno gli inevitabili ripensamenti, gli ormai tardivi pentimenti.
Ognuno ha la sua squadra. La Bianchi o la Legnano, la Salvarani o la Molteni, la Mercatone o la Mapei, la Tenax o la Flaminia, la Zalf o la Colpack. La mia squadra è trasversale e universale, indipendente e rivoluzionaria, composta esclusivamente da corridori senza vittorie. Ogni anno si arricchisce di nuove illusioni e si valorizza di nuove delusioni, si fortifica di eterni secondi e terzi mondi, si moltiplica di maglie nere e lanterne rosse, puntando e lanciando gli atleti regolari e completi, cioè quelli che – come si recita nel mondo del ciclismo – vanno piano dappertutto. Ho avuto grandi soddisfazioni: tra gli italiani Marco Marzano, vincitore di un Giro d’Italia e due della Valle d’Aosta da dilettante, poi nove anni da professionista e zero vittorie. Il giorno in cui arrivò secondo in una tappa della Vuelta 2009, lo chiamai al telefono e lui mi rispose regalandomi due incommensurabili e inestinguibili gioie. La prima: quando disse “Marco”, segno che aveva registrato il mio numero sul suo telefono. La seconda: quando spiegò “tranquillo, non sono uscito dalla tua squadra”, prova che ci teneva, e molto.
Proprio sabato pomeriggio, a Forlì, alla festa di Ercole Baldini, Giandomenico Marangoni, papà di Alan (e di Samuel), mi aveva invitato alla cena sociale del 1° dicembre: “Sarà felice di salutare e ringraziare coloro che lo hanno seguito e sostenuto in questi 10 anni da professionista”. Il menu è una garanzia per mantenere alto il colesterolo: cappelletti al ragù e strozzapreti panna-salsiccia, grigliata mista con tagliata e patate al forno, tenerina con mascarpone, e poi Sangiovese e Prosecco, caffè e grappa del contadino. Alla pista di pattinagggio (tre g, così è scritto sul volantino, forse perché si tratta di una pista dove si scivola meglio e di più). Alle 20. Farò di tutto per esserci. Nella circostanza provvederò all’elezione popolare del nuovo capitano della mia squadra. La partecipazione è libera. Basta presentarsi esibendo una macchia di ragù o di vino.