Era un uomo a due ruote: corridore, gregario, fuggitivo, azzurro fra i dilettanti, poi uomo da grandi giri (sei Giri e un Tour) e da grandi classiche (Sanremo, Fiandre e Roubaix). Adesso va a quattro ruote. Ma se è vero che la vita è una ruota, che poi siano due o tre o quattro, è soltanto un dettaglio aritmetico.
Marcello Osler nella sua casa di Canezza di Pergine, dove si apre la Valle dei Mòcheni, in Trentino. Dopo i 53 giorni di coma del 2013 e il miracoloso ritorno in vita, dopo l’ematoma da farmaci del 2018 e la conseguente paralisi degli arti inferiori, Osler è rientrato a casa. “E’ bello – confida – sentirsi amato”. Fra moglie, figlie e nipoti, qui si respira sostegno, affetto, riconoscenza, gratitudine, calore.
Elena ha trasformato la casa da verticale a orizzontale: si sale e si scende, ma tra montascale e scivoli le montagne sembrano spianate, schiacciate, abbassate, come nel soprannome di quello scalatore spagnolo: Bahamontes. E Marcello si muove: dalla camera alla sala, dalla sala al balcone, dal balcone alla cucina. Bisognoso, ma autonomo. Fragile, ma volonteroso. Dimezzato, ma gigantesco nel suo valore, nel suo orgoglio, nella sua dignità.
Il ciclismo, sempre. Nei ricordi: “Il nostro minitreno. Il primo vagone ero io, che sapevo tenere a lungo la velocità. Il secondo era Ercole Gualazzini, che sapeva farsi largo anche nello stretto, e che pedalava con le gambe ma anche con i gomiti. E il terzo era Roger De Vlaeminck, che era un fuoriclasse”. Negli oggetti: “Quel cappellino di lana, azzurro, con i bordi iridati, della Brooklyn. Ci corsi una Parigi-Roubaix. Freddo, pioggia, fango. Ma quel cappellino ci teneva al caldo”. Nelle storie: “Ugo Perini. Dilettante. Una volta uscì di strada, finì in un letamaio, riconquistò la bicicletta, si pulì come poteva, poi confessò: ‘Mi sono caricato troppo’. Un’altra volta corremmo insieme una cronocoppie: tirai sempre io, ma a cento metri dall’arrivo lui non resistette alla tentazione, uscì dalla mia ruota e mi precedette allo sprint”. Nelle avventure: “Elena mi ha regalato un motorino da applicare alla carrozzina. E’ un altro andare. L’altro giorno siamo usciti insieme, ma ho perso il controllo, sono finito in una specie di avvallamento, nel fango, nonostante il motorino non riuscivo a venirne fuori, Elena ha affondato i piedi nella melma, poi ha spinto e tirato, e mi ha salvato”.
Marcello pedala, alla sua maniera. Solleva pesi, manubri da tre chili, allenando bicipiti e pettorali. Legge, scrive, forse tornerà anche a intagliare il legno, era un falegname, e in casa ci sono animali scolpiti e cassapanche intarsiate, a regola d’arte. Archivia. Guarda la tv, segue le corse, studia i corridori, anche tappe e concorrenti del Giro d’Italia Under 23. Ritorna sulle salite e le discese che hanno illuminato i suoi anni da professionista, alle dipendenze di Moser e Bitossi, De Muynck e Sercu. E quella Potenza-Sorrento, 188 chilometri di fuga solitaria, e il direttore sportivo, Cribiori, che lo pregava di rallentare per non far andare i suoi capitani fuori tempo massimo.
La casa Osler-Leonardelli è un piccolo mondo: c’è il pianoforte, bianco, che le donne di famiglia fanno vivere di accordi e armonie; c’è la stufa in ceramica, che regala intimità e cordialità solo a guardarla; ci sono, sul balcone, vasi di fragole da curare e custodire, da cogliere e gustare; ci sono, nei giardini, piante di ciliegie; ci sono, all’orizzonte, le montagne e, nascoste, le loro strade e i loro abitanti.
Ogni tanto arriva un amico. Chi porta foto, chi parole. Ci porta saluti, chi sorrisi. Chi porta una bottiglia di vino, chi un sacchetto di mele. Ma tutti ricevono molto di più di quello che hanno dato: pace, fede, accettazione, consapevolezza, coscienza.
Era un uomo a due ruote, Osler, adesso va a quattro. E allora?