di Cristiano Gatti -
Roma ti amo alla follia. Roma sei sempre bellissima. Roma sei la migliore di tutte. Peccato che con il Giro c’entri come c’entro io con l’astrofisica.
Sì, lo dico a malincuore, perché lo spettacolo dei ciclisti che corrono lungo i Fori imperiali, all’ombra del Colosseo e del Vittoriano, sarebbe una cartolina fantastica. La più raffinata possibile. Ancora meglio dei Touristi che sfilano sui Campi Elisi, con l’Arco di Trionfo sullo sfondo. Certo, meglio, e lo dico senza afflati sciovinisti: è la pura e semplice verità.
Peccato, peccato perché il resto delude e mortifica. E non tanto perché il tuo fondo stradale ricordi molto quello sul Colle delle Finestre: da che mondo è mondo, queste sono le tue strade e non è certo il ciclismo che può fare tanto il piangina, essendo pur sempre anche lo sport della Roubaix e del Fiandre. Da una vita c’è una citatissima Commissione tecnica che valuta e approva i percorsi: dov’è stata nei mesi scorsi, a strafogarsi di pajata? Lo spot in diretta dei corridori che trattano con la giuria le condizioni per neutralizzare il tempo, al di là della singola questione, sa inevitabilmente di autogol. Il mondo ci guarda e fatica a capire. Gli eroi del Colle delle Finestre diventano improvvisamente incomprensibili, vagamente capricciosi. Ma parlarne prima, ma decidere prima, a telecamere spente, proprio è impossibile?
Poi c’è il resto, mi riferisco al cosiddetto “abbraccio finale”. Ho passato l’intera giornata dentro e lungo il percorso, non ho fatto altro che ascoltare agenti ignari dell’avvenimento, capaci solo di dire qui non si passa, faccia il piacere, non so che dirle. Dall’altra parte il potenziale popolo degli spettatori – compresi i giapponesi con l’ombrellino – respinti come indesiderati alla frontiera. La colonna sonora della giornata, lo testimonio a malincuore, è l’insulto, declinato in tutte le sue possibilità lessicali. Primo il mavaffan di stampo borgataro. E dovrebbe essere una festa, in teoria.
Come mai, ho provato a chiedermi.
La prima ragione è generale, non tocca solo te, amatissima Roma: è proprio una caratteristica ormai radicata nelle grandi città, Torino e Milano comprese. Sono talmente alienate da vivere ormai il ciclismo come un fastidio metropolitano. Prima si leva dai piedi, prima si torna a vivere.
Poi però c’è una ragione tutta tua, del tuo modo di essere: la Roma popolare e popolana vive di solo calcio, la Roma da terrazza proprio non ne vuole sapere. C’è la fila dei prelati e delle duchesse, dei burosauri e dei banchieri, per entrare al Foro Italico e a Piazza di Siena, per esserci e starci, per contare e contarsi, ma qui al Giro non si intravede l’occasione propizia per adeguate relazioni. Probabilmente il Giro sa ancora troppo di sudore e di fango, di polvere e di canfora, perché il generone alla Sorrentino si senta attratto. Devo dire che i grandi sponsor della corsa rosa hanno fatto le cose per bene, eleganti stand lungo i Fori imperiali con tanto di poltrone e bollicine, l’unico modo per mettere a proprio agio la bella gente, ma non ho visto afflussi epocali. Questo per quanto riguarda l’elite e la creme. Se poi vogliamo parlare delle transenne lungo il percorso, lo dico apertamente e amaramente: spesa inutile. Bisogna ringraziare i turisti che si fermano a bordo percorso per curiosità e per la foto folkloristica, perché la moltitudine dei tifosi veri non c’è. Notate massicce comitive che proprio non capivano perché mai la loro vacanza romana dovesse subire intralci da questa strana carnevalata di invasati su due ruote.
Di più: persino lui, il papa laico, simbolo e emblema dei sette colli, ha svoltato l’angolo. Sì, il Pupone ha preferito andarsene a Montecarlo per il Gran premio, piuttosto che restare nella sua amata città ad annoiarsi con i poveri martiri della bicicletta.
Cara Roma, carissima Roma, proprio non è cosa. Il Giro dovrebbe sempre finire nella sua capitale, ma se deve finire così, forse è meglio ripensarci. Quando la scintilla non si accende, quando un amore è fiacco e freddino, inutile insistere. Può darsi che fra cent’anni, a forza di provarci, qualcosa possa nascere. Ma non adesso, non così. Adesso sarebbe meglio per tutti stringersi la mano e dirsi arrivederci. Forse, chissà.