
Patrick Lefevere è un tecnico di lungo corso, in carriera ne ha viste tante e tante altre ne vedrà considerato che, nonostante le difficoltà economiche, la sua Quick Step Floors proseguirà ancora per un altro anno (almeno) il cammino nel grande ciclismo, mirando a confermarsi il team più vincente della stagione. Al tecnico belga, ritenuto a ragione tra i manager più di successo nella storia del ciclismo, abbiamo chiesto come sta il movimento di oggi. Con il suo buon italiano ci ha risposto senza peli sulla lingua. Andando dritto al punto, anche su temi spinosi.
Il ciclismo è in salute?
«Ho visto come è cambiato dal dopoguerra a oggi, tanto è mutato ma non i sacrifici che devono sopportare i corridori. Nutro profondo rispetto per gli atleti di alto livello che per emergere devono lavorare tanto, stare attenti a cosa mangiano e bevono. La "vita" è la stessa, la differenza ormai la fanno i piccoli dettagli. Dal punto di vista tecnico, dell'aerodinamica e della preparazione poco può essere migliorato. Basti pensare che anche dove si potrebbe perfezionare ancora qualcosa, come nel peso delle bici, ai costruttori è imposto il limite dei 6,8 kg».
È stato ridotto il numero degli atleti nelle grandi corse. Pensa questo servirà ad accrescere lo spettacolo e a garantire maggiore sicurezza?
«È una bugia bella e buona. Non capisco la decisione presa dall'UCI, che sarebbe potuta essere catastrofica. Noi squadre siamo stati bravi a non tagliare 5-6 corridori, come avremmo benissimo potuto fare. Ciò avrebbe comportato meno meccanici, meno massaggiatori, meno medici, meno direttori. Immagina che ogni squadra avrebbe potuto fare a meno di 10 persone, per 20 team vuol dire perdere 200 posti di lavoro. Per correre meno rischi basterebbe che ASO e UCI capissero che non è indispensabile arrivare di fronte alla casa del sindaco del dato paese che paga la tappa, per cui bisogna affrontare nel finale 5 rotonde, 8 curve... I corridori accettano tutto».
Qual è la richiesta più urgente che avanzerebbe al nuovo presidente UCI Lappartient?
«Il nostro ambiente deve essere meno critico e negativo. Non conosco un altro sport che continua a farsi del male da solo, è come se avessimo una pistola in mano e continuassimo a spararci ai piedi. E non mi riferisco al doping. Io sono ragioniere, da quando Verbruggen ha lanciato il Pro Tuor (ottima iniziativa a mio avviso) non ho visto cambiare il budget del movimento, che si sarebbe dovuto raddoppiare o triplicare. Gli organizzatori, che sono sempre gli stessi, piangono che non hanno soldi, noi non ne abbiamo. Ciò semplicemente significa che il nostro modello di business non funziona. I grandi team stanno in piedi grazie a 4-5 mecenati come Bakala e Riis, ma i grandi soldi che arrivano al calcio dalla Cina e dall'Arabia noi ce li sognamo. Quest'anno per salvare la squadra dalla chiusura ho viaggiato per tutta Europa e non ho trovato mezza lira».
Doverosa una riflessione sul caso Froome, che ha gettato nuovo fango sul nome del ciclismo.
«Vicende di questo tipo fanno sempre male, abbiamo bisogno di chiarezza. Se ci sono dei regolamenti, vanno rispettati. Anche da Sky. Non posso esprimermi oltre perchè non so molto della vicenda, so quello che avete scritto e letto anche voi, che gli è stato riscontrato il doppio del valore di salbutamolo consentito. Io soffro di asma, ma non sono un atleta. Però sono un guidatore e se bevo un bicchiere di vino di troppo so che rischio la patente. Sappiamo come sono stati giudicati i casi di Ulissi e Petacchi, ora Chris è fermo perchè è inverno, se io fossi a capo del suo team spingerei affinchè l'UCI prendesse una decisione alla svelta. Tirare per le lunghe la vicenda peggiora solo la situazione, l'opinione pubblica penserà che c'è omertà e che nascondiamo la polvere sotto il tappeto, quando in realtà non c'è nessun altro sport limpido come il nostro. Nel calcio e nell'atletica, solo per fare due esempi eclatanti, non sanno cosa sia la lotta al doping».
da Calpe, Giulia De Maio