Caro Bugno,
scusa se contravvengo a una buona regola giornalistica e ti dò del tu: è che in questi anni, chiaramente senza accorgercene, siamo invecchiati un po’ tutti assieme, in giro per le strade del mondo a vivere e a raccontare storie. Alla fine, dopo molto vagare, ci si ritrova sull’uscio di casa pesando i segni del tempo, ed è molto consolante scoprire che rimane almeno qualcosa di importante: un po’ di amicizia e un po’ di affetto.
Caro Bugno, per te è il momento di lasciare la bicicletta e cominciare a pedalare. Per noi è il momento di fermare almeno un attimo le frenetiche sequenze del lungo film. Ricordi? Sei esploso con un bagliore in una Milano-Sanremo piena di sole, solitario in fuga e solitario al traguardo. Era il 1990. Poi, lo stesso anno, mentre l’Italia degli ultrà aspettava le notti magiche dei Mondiali di calcio, hai corso il Giro in maglia rosa dall’inizio alla fine. Ricordo come adesso la tua faccia dopo il cronoprologo sul lungomare di Bari: «Ragazzi - ci dicesti più afflitto che euforico - non cominciamo a dire che vinco il Giro. Non sono fatto per queste corse, io vado avanti alla giornata...».
Domani la perdo, domani la perdo, domani la perdo: a forza di annunciare il tracollo, arrivasti a Milano ammazzandoli tutti. Cominciammo lì, in quel mese indimenticabile, il lungo supercorso sulla tua indecifrabile personalità. Negli anni, tutto il resto. Il secondo posto al Tour dietro Indurain, l’Alpe d’Huez, i due Mondiali consecutivi (il giorno prima di Benidorm: «Ragazzi, non pensiate che io possa vincere...»), il Fiandre per un pelo. Tutto questo mescolato al Lombardia dominato e gettato per la leggendaria paura in discesa, ai quarti d’ora incassati nelle giornate di luna storta, ai sublimi teatrini con Stanga, fino all’ultimo periodo di autoflagellazione espiatoria nel ruolo di gregario.
Caro Gianni, i risultati sono tutti sugli almanacchi, ma quello che hai rappresentato per noi bugnisti è scritto a caratteri forti nella nostra nostalgia. Ci mancherà la tua pedalata d’autore, in totale assenza di gravità e di fatica. E ci mancheranno persino quelle tue cervellotiche autoanalisi che alla fine ci stordivano un po’.
Ma adesso che esci dal gruppo è anche il momento di chiederti qualche scusa. Se ti è possibile, dovresti scusarci per le scudisciate impietose che ti abbiamo inflitto quando ti afflosciavi: abbiamo un’attenuante forte, erano scudisciate tifose. Poi dovresti scusarci per avere ficcato il naso nelle tue storie di cuore, là dove nessuno dovrebbe mai addentrarsi senza essere prima invitato: sappi che comunque abbiamo un’attenuante forte anche per questa colpa, ed è la vecchia storia che quando ami un personaggio di lui vuoi sapere tutto, eventualmente persino partecipare alle sue vicende. Infine, sempre se ti riesce, dovresti perdonarci la colpa peggiore: averti per tanto tempo messo vicino, sullo stesso piano, come foste della stessa dimensione, il «generoso» Chiappucci. Adesso che gli anni sono passati, adesso che la cronaca comincia a diventare storia, il crimine si presenta in tutta la sua gravità. Sarebbe come se qualche critico si fosse ostinato nel paragone tra Tolstoi e una brava dattilografa, solo perchè tutti e due scrivevano molto. Scusaci davvero, perchè un conto è il sacrosanto tifo per Chiappucci, un altro è costruirci sopra una vera rivalità, con tanto di argomentazioni tecniche e profondi ragionamenti. Lo sappiamo tutti che il tuo vero contraltare era Indurain, ma molti di noi hanno preferito paragonarti e contrapporti a Chiappucci per obbedire a una bassa esigenza di mercato. Non era giusto farlo, ma d’altronde vedi che anche adesso cercano di contrapporre Tafi a Bartoli, e dimmi un po’ tu se c’è una logica in tutto questo.
Caro Bugno, le nostre colpe sono molte. Ma qualcuna ne hai anche tu. Soprattutto, ti porti in pensione quella gravissima di non avere mai capito quanto i giornalisti ti hanno voluto bene. Sì, anche quando ti hanno scudisciato. Soprattutto quando ti hanno scudisciato. Però sappi che nessuno ti porta il minimo rancore. Adesso che scendi di bicicletta, siamo tutti qui a stringerti in un abbraccio sincero. La fatica che hai fatto in questi anni non è nulla rispetto a quello che ti aspetta adesso. La vita normale è una strana corsa: quando vai forte sei circondato da una folla di persone inutilmente pronte a darti una mano, ma quando vai in crisi - di fame o di identità - non c’è lo straccio di un gregario disposto a passarti una borraccia. E se capita di forare, non c’è nessuno che passi la sua bicicletta.
Buona fortuna, grande Bugno. Lo sport è questo: alla fine di una carriera sei il saggio e l’anziano del gruppo, non appena la chiudi ritorni subito bebè e cominci da capo. Cercando la tua nuova strada, comunque, prima o poi la troverai. Buona fortuna soprattutto per questo. Noi, intanto, riponiamo questi anni nella cassaforte dei dolci ricordi. Staranno al sicuro. I ricordi sono l’unico patrimonio che nessun ladro riuscirà mai a portarci via. L’ha scritto un grande, non una dattilografa.
Cristiano Gatti, bergamasco,
inviato de “Il Giornale”
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