Proprio noi, che abbiamo costruito nei secoli una formidabile macchina per privilegi e furbate, tutto quanto fondato sul semplice e sofisticato metodo del certificato, buono per una pensione d’invalidità o per saltare il servizio militare, per imbrogliare l’assicurazione o per stare a casa dal lavoro, proprio noi maestri di quest’arte nazionale dovremmo essere gli ultimi a stupirci di come il pratico strumento del certificato sia attualmente il più richiesto anche dai corridori per aggirare le norme antidoping. È il fatto nuovo dell’estate, una cosa che già si sapeva, ma che è esplosa con le solenni dichiarazioni nelle sedi istituzionali: ma come, si sono puerilmente sorpresi i controllori, la maggioranza dei ciclisti - di questi superuomini rotti a tutte le intemperie e a tutte le sofferenze, giusto l’altro ieri li chiamavamo fachiri - la maggioranza di questa brava gente soffre di malanni importanti e per esercitare la professione è costretta a imbottirsi di medicinali, anche e soprattutto di quelli non consentiti, ovviamente giustificati da regolare certificato medico.
Già molte cose si sono sentite e si sono lette su questo allarmante fenomeno. Ovviamente, nessuno ha più voglia di passare per ingenuo e per babbeo: lo sappiamo bene che cosa c’è dietro. E quanto ai ciclisti, che indignatissimi rifiutano la nuova ondata di sospetti, farebbero bene almeno a tacere: da quando si parla di lotta al doping, non hanno fatto altro che collezionare figure puerili, in un continuo e fragoroso crollo di credibilità. Persino quando si sono molto incensati per la scelta autonoma di porre un limite al famoso tasso di ematocrito s’è poi scoperto che cosa in realtà ci fosse dietro: Epo libera, perché il tetto di 50 era di fatto il lasciapassare tanto atteso da gente che ha mediamente - come tutta la gente del mondo - tassi naturali tra il 40 e il 45.
Detto questo, tanto per evitare le solite indignazioni di categoria, mi pare che nessuno abbia però adeguatamente bombardato un settore nevralgico di questo giochetto del certificato: la classe medica. Sì, è ora di dare anche agli illustri professionisti del camice bianco la loro parte. Non parlo di quei mezzi santoni che nel tempo si sono adoperati - senza scorciatoie - per intossicare un’intera generazione di atleti. Quelli sono soltanto demoni. Parlo dei semplici medici che per volgari fini di lucro o anche solo per ignavia, alla Ponzio Pilato, per non saper né leggere né scrivere, firmano tranquillamente il certificato al grido di «corticoide libero». Quanti sono? Sono moltissimi. Per uno che esercita seriamente, magari anacronisticamente fedele al giuramento di Ippocrate, ce ne sono nove che firmano senza problemi. Come quelli che firmano al proprio mutuato i tre giorni di malattia per un raffreddore (quando non è per la settimana bianca), come quelli che certificano conseguenze apocalittiche dopo un semplice tamponamento nel parcheggio dell’Esselunga. Sono loro, i permalosissimi e baronali rappresentanti di una casta molto particolare, quella dei medici sportivi: signori seriosi e orgogliosi, sempre pronti a pretendere rispetto e a invocare comprensione, perché - come amano dire - «noi non possiamo essere responsabili di corridori che vediamo una volta alla settimana, quando va bene». Giusto: che ne sanno loro di quello che si sparano in vena i corridori? Io ho sempre cercato di solidarizzare, anche se nessuno mi ha mai chiarito un dubbio banalissimo che mi assilla da diverso tempo: ma quando un medico sociale - poniamo pure ignaro e in buona fede - si trova davanti tassi di ematocrito regolarmente intorno, se non sopra, al 50, perché come minimo non prescrive un periodo di ricovero e una serie di accertamenti all’intera squadra? O davvero vogliono farci credere che trovarsi di fronte quindici atleti tutti con valori attorno al 49, cioé anche formalmente in regola, non deve comunque smuovere qualche inquietudine?
Fin qui, il discorso in generale. Ma è sul certificato che esce il peggio. Perché il medico ricorre al raggiro più subdolo: sfruttando una doverosa eccezione dei regolamenti, che devono permettere all’atleta di curarsi, aprono di fatto una nuova frontiera al doping. Davanti a quest’ultimo spettacolo, penoso e desolante, mi viene da ridere quando penso agli schiamazzi dei medici per non essere considerati responsabili assieme agli atleti. Altro che estraneità al reato: sono complici, sia detto una volta per sempre. Non tutti? Non tutti. Però sarebbe ora che proprio i medici onesti dicessero qualcosa: i primi a rimetterci sono loro. Se la loro reputazione è carta straccia, non devono prendersela col mondo: se la prendano coi loro colleghi, che carta straccia fanno della deontologia e dell’onestà.
Cristiano Gatti, bergamasco inviato de “Il Giornale”
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