In bicicletta, lungo la valle Imagna, una zona ancora poco intossicata dalla civiltà, poco fuori Bergamo. Mi godo l’aria fine e il panorama aperto pedalando alle andature che mi posso permettere, tra i venticinque e i trenta. Forse fa ridere, ma per me è qualcosa. Ad un certo punto c’è il semaforo. Mi fermo. Dopo pochi secondi sento alle spalle una bici in frenata. Lui è un signore sui cinquanta, occhialini da professore di italiano o da funzionario di banca, fisico asciutto e volto già brunito dagli allenamenti primaverili. Noi del giro abbiamo questo strano occhio clinico: guardando in faccia il collega cicloamatore possiamo stimare quanti chilometri ha già accumulato, con un margine d’errore prossimo allo zero. Questo signore è di quelli che vanno. Categoria diesel. Magari media oraria non altissima, però media chilometri «de ppaura».
Com’è la regola non scritta, la liturgia, il costume dello sport praticato? Che cosa distingue i devoti della bicicletta da quelli, tanto per dire, del golf o del tennis? È difficile spiegare a parole. Bisogna provarlo lungo le strade delle nostre valli e delle nostre pianure. Io e lui ci guardiamo soltanto un attimo, nascosti dietro gli occhiali scuri, salutandoci con un semplice cenno del casco. Nasce seduta stante, senza bisogno di una sola parola, l’eterna e inimitabile magia di questo strano mondo su due ruote: rivalità e complicità, odio e amore, amici e nemici. Quando il semaforo torna verde, ripartiamo sentendoci subito un po’ Coppi e Bartali. Magari anche un po’ cretini, però è il bello della faccenda.
Tiro io. Lo sento dietro, silenzioso come un puma. Sta facendo la mia stessa fatica o magari sta solo aspettando di passarmi sulle orecchie? Spero nella prima ipotesi, perché io sono già al limite. Mannaggia al momento in cui l’ho incontrato: da solo potevo rilassarmi, ora devo reggere la parte, mica posso rallentare proprio adesso. Un chilometro, poco più. Poi lui mi affianca, rigorosamente senza guardarmi, con lo sguardo rivolto verso l’infinito, nascondendo la sua tattica, nascondendo la fatica, nascondendo tutto. Ecco, adesso mi molla. Invece no, si mette solo davanti, perché conosce le regole: si tira un po’ ciascuno. Uniti si va lontano. Infatti, guarda come si va via regolari, affiatati come nelle fughe del Giro e della Roubaix, senza strappi e senza sbandamenti, sincronizzati come gli ingranaggi dello stesso orologio. Cribbio, quant’è bello il ciclismo. Mi sento un po’ Gimondi e un po’ Bugno, un po’ Indurain e un po’ Pantani, insomma un po’ tutti i campioni che ho amato nella mia carriera di tifoso. Lui, che è un po’ più anziano, magari si sente un po’ Baldini e un po’ Pambianco. Però insieme andiamo via «bellini bellini», come dice il sommo e tenero Alfredo Martini, che l’armonia del ciclismo l’ha sempre insegnata e coltivata.
Passano i chilometri, manco ce ne accorgiamo, io davanti e lui dietro, lui davanti e io dietro, senza bisogno di chiamare i cambi, senza bisogno di dirci niente. Però siamo una squadra vera, però assaporiamo il messaggio nascosto dello sport più semplice e più umano. Ciascuno di noi non vuole mollare, ciascuno di noi sarebbe pronto a dimostrare che va più forte. Ma nessuno dei due lo fa, perché ormai l’alleanza è stretta. Sono sicuro che se io forassi, o se restassi senza acqua, questo signore sconosciuto non esiterebbe a fermarsi per aiutarmi. E io sono pronto a farlo per lui. Anche se non c’è un regolamento scritto che lo prevede, anche se non c’è un’autorità che ci impone di farlo. Si ripete così, spontaneamente e senza tante chiacchiere, il mistero - il divertimento - di queste giornate fuori dalla città, fuori dallo stress, fuori dagli schemi, fuori da tutto.
Poi arriviamo alle porte della città. Si ripiomba bruscamente nella realtà. Ad un incrocio, lui alza la mano per indicare che svolterà a destra. Io devo andare dritto. Un cenno del casco, come all’inizio, e ciascuno per la sua strada. Siamo stati affiatatissimi per un paio d’ore, una coppia indissolubile, torniamo ad essere due estranei. Posso dire che questo è il ciclismo. Che cosa sia il golf, francamente non so.
Cristiano Gatti, bergamasco, inviato de “Il Giornale”
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