La legge e’ uguale solo per Pantani
di Cristiano Gatti
La nuova stagione ricomincia con un pregiudicato in gruppo: Marco Pantani. Sembra tutto così irreale, eppure questo è il bel risultato del cataclisma che si è abbattuto sul ciclismo una paio d’anni fa, come un crollo d’impero, l’impero dell’Epo.
Mi sono chiesto spesso, dopo quel nebbioso giorno di dicembre, a Forlì, quando un’arcigna signora di professione giudice ha condannato Pantani per frode sportiva da doping, se davvero si possa pronunciare la fatidica frase «giustizia è fatta». Me lo sono chiesto molte volte, sia la sera stessa della sentenza, sia nelle settimane a seguire, ma alla fine la risposta è sempre la stessa: no, giustizia non è fatta. Caso mai, e mi scuso per la grossolana ironia, ancora una volta «giustizia è sfatta».
L’amara conclusione non è legata alla sentenza. Io continuo a ritenere acrobatiche le due operazioni della signora giudice, cioè un alto tasso di ematocrito come prova di doping e quindi doping come reato di frode sportiva, ma non è nemmeno questo lo scandalo peggiore. C’è qualcosa di più sottile e di più deprimente. Provo a spiegarmi. Perché la giustizia sia rispettabile e autorevole, perché davvero funga da garanzia per tutti quanti, deve avere una caratteristica fondamentale: funzionare allo stesso modo con chiunque. Non è per libidine decorativa che in tutte le aule della Repubblica, proprio sulla testa del giudice, campeggi una scritta semplice e impegnativa come «La legge è uguale per tutti». Ecco, proviamo a chiederci questo: nel caso Pantani, si può concludere che «La legge è uguale per tutti»? Purtroppo, ed è questo il lato più triste della questione, non va così: la legge è uguale solo per lui. Gli altri, tranquilli, tutti fuori dai processi.
Più ancora di una sentenza discutibile, è il risvolto «personalizzato» dell’intera storia che stride. Parliamoci chiaro: se davvero è giusto che Pantani paghi con una condanna penale perché a naso può aver usato l’Epo (la prova non ci sarà mai), allora una moltitudine di atleti dei più diversi sport dovrebbe avere la fedina penale sovraccarica, a cominciare da tutti quelli che il doping l’hanno assunto con tanto di prove (analisi e controanalisi), fino ad arrivare comunque a quelli che denunciano tassi di ematocrito allarmanti, vogliamo fare sopra il 48?
Invece non è così. Pantani ne passa di tutti i colori, gli altri al massimo se la cavano con la garbata punizione degli organi sportivi. Vogliamo parlare, per non girare attorno agli esempi, del battaglione di valorosi azzurri che tanto hanno inorgoglito la nazione ai Giochi olimpici, ma che la scienza ha definito in condizioni preoccupanti per valori fuori norma? Se tutti finissero davanti alla dama bionda del tribunale di Forlì, cui basta un fondato sospetto per scatenare la condanna, sarebbe una strage. Invece niente. È già tutto dimenticato. La Legge è uguale solo per Pantani. Allora però non sembrino più così fastidiosi e pedanti i vittimismi di Pantani, che qualche ragione per sentirsi perseguitato innegabilmente ha. Qui non si tratta di stabilire se lui è innocente o colpevole: qui si tratta di decidere, una volta per tutte, se la giustizia sia una cosa seria e universale, o se invece non sia per caso una simpatica lotteria nazionale, chi pesca pesca e tanti complimenti al vincitore.
Insisto, Pantani ha mille motivi per fare la vittima. Perché purtroppo lo è. Così lo hanno ridotto. Solo una cosa, però, vorrei ricordare a lui. Suona un po’ come una beffa, ma nessuno può negarla: a trascinare per i capelli la giustizia ordinaria nella sua vita, guarda il caso, è stata la sua squadra, o il suo entourage, o il suo ambiente: insomma, chiamiamolo a caso, comunque da lì è partito tutto. Nella storia bisogna avere memoria lunga, guai dimenticare i passaggi. E nessuno deve dunque dimenticare che quella famigerata mattina di giugno, a Campiglio, quando Pantani fu fermato al Giro, i primi a chiamare in causa carabinieri e magistrati furono proprio i collaboratori del corridore, urlando al complotto e insinuando chissà quali manovre oscure. Col risultato di tirarsi addosso le indagini come mosche sul miele.
Io resto della mia idea, e mi scuso se a forza di ribadire si diventa noiosi: ma se Pantani, quel giorno, ci avesse magari pianto sopra, poi avesse incassato le due settimane di stop, ripartendo quindi subito dopo, niente di tutto questo caravanserraglio si sarebbe messo in moto. Certo la storia non si fa a ritroso, e nemmeno la si fa coi ma, i se, i però. Eppure qualcosa bisogna rielaborare, anche solo per capire qualche errore. I nemici potrebbero certo approfittarne per dire che Pantani è causa del suo mal, dunque pianga se stesso. Non io.
Cristiano Gatti, bergamasco, inviato de “Il Giornale”
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