Si chiamano ancora Danny Stam e Leon Van Bon, hanno quasi quarant’anni, classe ’72.
Peter Schep è invece un po’ più giovane, nato com’è nel ’77; Yoeri Havik, un nome proprio da favola, è un cucciolo, più che una promessa, ha solo venti anni.
Corrono, fra una sfilza di olandesi in crescendo, un nuovo Pronk in più tanto per allungare la genealogia, e un nucleo ridotto all’osso di stranieri, neanche Franco Marvulli in pista ormai, la prima Sei Giorni della stagione. 13 coppie al via, ad Amsterdam.
Giusto. Straordinariamente giusto così, in fondo. Prima Sei Giorni ad Amsterdam, Olanda, sfondo totalmente orange, dove il ciclismo resta la trascrizione fantastica della vita più amata, dopo aver metabolizzato tanto black-out di perplessità e disaffezione - Pdm e TVM comprese -, è giusto che il ciclismo viva a casa loro al comando anche la quarta stagione dell’anno: l’inverno, i velodromi coperti.
Sei Giorni d’inverno, da noi, chissà quando le rivedremo, pur apprezzando l’encomiabile lavoro sotto le stelle delle mezze stagioni svolto da Claudio Santi. Ed anche se Elia Viviani fila che è un piacere, un progetto Nuova Pista in Italia, non solo in chiave olimpica ma ancor più in chiave gestionale, ci sembra sempre una dolce utopia. Coniugata al passato e alla illusione.
(Noi paghiamo il dazio, in verità, di essere filo-olandesi da una buona vita, senza confessarlo esplicitamente tra l’altro a nostra figlia Chiara, tifosa dichiarata del Napoli, che continua a denunciare ai tribunali familiari come la nostra suddetta fede sia virata peccaminosamente dalle strade del ciclismo anche agli stadi del calcio. “Mica ti piace il Bayern, perchè c’è un Van Buyten, dopo aver tifato per il Milan di Van Basten-Gullit-Rijkard, ai tempi in cui a Napoli c’era Maradona, come mi racconta sempre mamma?”. Filo-olandesi, figlia mia, sì, ma in specie quando arrivano in calendario le Sei Giorni. «Et pour cause...»).
E mentre Stam e Van Bon non potranno raggiungerci mai, tanti giri di vantaggio abbiamo ormai inanellato, ci teniamo stretta al cuore infatti - ma la rendiamo pubblica - la memoria segreta di quella Sei Giorni di Milano, trenta anni fa: anzi quasi trentadue, febbraio 1980. E l’emozione che ci regalarono Raschi e Negri, alla Gazzetta eravamo beneamati, molto prima di Palumbo, e una vita prima del tabloid, noi di una città lontana, senza l’obbligo di una redazione locale, con un biglietto omaggio, e il pass per i camerini degli atleti. «Così, finalmente, Paolo, potrai conoscere quel ciclista olandese, Gerben Karstens, che ti ha catturato la fantasia, e consegnargli di persona una copia del libro che gli hai dedicato...”.
Certamente, tra i sottopassi grigi del Palasport il nostro cappotto blè quella sera era stonato, tutti in tuta, non si andava mica ad una festa da ballo di città, l’avevo raccomandato alla ragazza bruna in tailleur nero che mi accompagnava. Ma il camerino numero “8” era talmente vicino, da non poter dissertare oltre: Burton-Rosola, Karstens-Venix. La porta era socchiusa, uno dei quattro alloggiati lì, Burton, un inglese di colore e di silenzio e di opache volate se ne stava disteso a sfogliare una rivista.
There is Karstens ?. E con un cenno della testa, lui ci invitò a girarci: dietro un armadio c’era l’amico Karstens, biondo velocista olandese ormai anziano, 38 anni, ciclista per male e di mille storie, lui il figlio avventuroso di un ricco notaio di Leida.
Rino Negri, che ci aveva accompagnato, ci presentò e gli diede una copia del libro, A Gerben, con simpatia: e Gerben sventolandolo in mano trionfante, lo mostrò a Burton: “look here, Burton, my book”. “Gracia gracia gracia, Paul, gracia”. E mai un grazie maltrattato risultò così universale.
“This book, Paul, is formidable”, aggiunse, precisando che alcune pagine gliele aveva tradotte Fedor Den Hertog, quel ciclista olandese che aveva corso in Italia, anche con Moser, e conosceva bene la nostra lingua. Ma alla Sei Giorni di Milano 1980, il tempo per l’americana stringeva. “Gerben, il prossimo Trofeo Baracchi lo correremo insieme?”, buttai lì per un congedo informale. Ed allora ricordo, sembra ieri, come il suo sguardo si incrinasse, un’ombra tra le ciglia: “no, Paul, my time is kaputt”, la mia carriera è alla fine.
E guardando la ragazza che mi accompagnava e sarebbe un giorno divenuta mia moglie, ci mise le mani sulle spalle, a me e a lei, lui ciclista maledetto, quasi per una benedizione: “the next Trofeo Baracchi, you will run together”, il prossimo Trofeo Baracchi lo correrete insieme voi due.
E via di corsa, “ciao”, a sostituire Venix in pista.
La Sei Giorni di Milano dell’80 terminava lì per noi, chi se ne poteva fregare della vittoria finale, di Pjinen e Sercu, di Moser e Saronni: alla quarta serata.
Ed adesso sapete anche voi perché, dentro di noi, una Sei Giorni non potrà finire mai. E sarà, anche in Canadà, anche quando non ci saranno più Pronk, sempre sentimentalmente olandese.
Gian Paolo Porreca,
napoletano,
docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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