I sessant'anni di Battaglin e un mondiale vissuto in cucina
di Gian Paolo Porreca
Quante corse, quante cose, ha vinto Giovanni Battaglin, il campione veneto che ha compiuto 60 anni il mese scorso, il 22 di luglio. A ben notare, in un excursus degli almanacchi, tra le 51 vittorie ci sono certo esaltanti un Giro e una Vuelta nello stesso anno, il 1981, e c’è la maglia di miglior scalatore nel Tour ’79, concluso dignitosamente al sesto posto. Ma ci sono pure le vittorie di tappa al Giro e al Tour, alla Vuelta e al Giro della Svizzera. E ci viene da chiederci, a proposito, in quanti nella storia siano riusciti in questa impresa: oltre a Merckx, naturalmente.
E di questo scalatore dichiarato, pure un paio di vittorie, ancora di giornata, vanno ricordate per la loro cifra singolare. Quella di Caen, al Tour ’76, vinta, lui atleta di montagna, con il concorso del compagno di squadra nella Jollyceramica Pierino Gavazzi, beffando i velocisti stranieri maggiori, Raas Esclassan Maertens... E l’altra, in una direttissima come la Milano-Vignola, conquistata nel 1980, anticipando una compagnia di italiani increduli: Moser Contini Mantovani Saronni...
E perché no, a ratificare una versatilità tecnica forse non del tutto realizzata di fatto in questo atleta, il successo nella cronometro di Forte dei Marmi, nel Giro ’75: dinanzi a Gimondi, quando fra l’altro avrebbe indossato la sua prima maglia rosa.
Quante corse, quante cose, squadra Jollyceramica o Inoxpran, e quanto rammarico, forse, in un addio anticipato alle gare: 1984, a 33 anni. Sulla scia di una sequenza tenace di infortuni.
E innanzitutto quella immeritata sconfitta, quella sopra ogni cosa, che ci ricordava come ferita ancora viva Alfredo Martini, subìta al Mondiale di Valkenburg, il 25 agosto 1979. Battaglin, l’azzurro buono e sfortunato, scalatore sì, ma attore brillante, l’abbiamo detto, e scattante così da bruciare tutti nelle giornate di vena, era protagonista della fuga decisiva. Gli otto al comando che diventano sei, perchè Knudsen e Willems cadono... L’affondo di Chalmel, il meno atteso, che sembra farcela...E gli altri, tirati da Lubberding, gregario olandese doc, che lo riprendono a 400 metri dal traguardo... Raas è il logico favorito, certo, gioca in casa per giunta, ma in uno sprint da Mondiale non si sa mai.... Ed è proprio Battaglin, il nostro, a rompere gli indugi a poco più di duecento metri dall' arrivo... Ed è allora Dietrich Thurau, il tedesco, che si sposta repentino, derapando di brutto, e lo stringe e con una codata lo manda a ruzzolare per terra... E vince vince vince Raas, che usa Thurau, compagno di squadra nella Ti-Raleigh, come testa di ponte per trionfare, tra fiumi di Amstel e un miliardo di contumelie che dalla strada un lacero Battaglin continua nel ricordo a gridare. Solo sesto, malconcio: dopo Bernaudeau, Chalmel, Lubberding...
Sessant’anni compiuti, quel dolore e quel senso di ingiustizia patita Battaglin non la dimenticherà, certo. Come Raas non dimenticherà che quello fu il giorno più importante - sportivamente? - della sua vita. E chissà cosa ricorderà Thurau, già secondo, dopo Moser, quella volta prima, nel ’77, a Montreal: forse, in Canadà, sarà stata l’età, con uno spirito più sereno.
Noi non possiamo certo rimuovere quella cicatrice dalla storia ciclistica di Battaglin, oggi industriale di bici. Ma gli regaliamo un sorriso. Una lettura di pacata gentilezza. Raccontandogli come riuscimmo - quella domenica di agosto - a seguire il suo Mondiale. In Sardegna, vacanza di mare, Baia Arzachena, borghesia rumorosa, giovani ad alto volume. Tutti i televisori dell’albergo/residence sintonizzati sull’automobilismo e su Villeneuve, come passa il tempo, Formula Uno, in totalitarismo assoluto. Solo Ferrari, e non il “dottore”... «Come potrei fare, di grazia, per vedere il Mondiale di ciclismo?». «Forse, potrebbe andare in cucina, può darsi che i camerieri lo vedono, il ciclismo...».
E così, caro Battaglin, quel Mondiale lo seguimmo in cucina, su una sedia di paglia, fra le tovaglie dismesse e i camerieri che non amavano - all’epoca - le cilindrate maggiori.
Era un televisore in biancoenero, mi sembra. Era umilmente popolare. E lo teniamo stretto al cuore con una dolcezza infinita. Egoisticamente.
Ma quel suo azzurro sfumato, caro Battaglin, con un bicchiere di Cannonau senza etichetta ad alleviare la delusione, resterà nei decenni il più virtuoso debito di un sogno iridato. Senza scadenza annuale. Neanche a 60 anni compiuti.
Gian Paolo Porreca,
napoletano,
docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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