Al festival di un partito mi è stato recentemente chiesto, nel corso della presentazione di un mio libro, come sia possibile credere ancora nel ciclismo. Attenzione: chi me lo ha chiesto, il giornalista Rudi Ghedini, ci crede ancora, lo ha premesso, e dal tipo di domande che mi sono state poste in corso di discussione posso dedurre che ci credono ancora, in larghissima maggioranza, quegli uditori lì interroganti e interrogantisi.
La domanda non è nuova, e addirittura si può dire che è una sottodomanda. La domanda assoluta, globale, totale, è infatti questa: è possibile credere ancora nello sport? La tonalità ormai fortissima della domanda stessa è dovuta ai recenti scandali calcistici. Diciamo che il contributo del ciclismo alla formulazione e all’attualità del quesito è costante o quasi, mentre il calcio fornisce interventi assai diluiti nel tempo, ma di immane forza esplosiva, o almeno di spaventoso rumore di esplosione (perché poi spesso non accade nulla o accade poco: e il calcio, ad esempio, non solo non si è ancora dato un antidoping serio, ma, con tutti i casini che ha patito in materia di corruzione, continua ad aspettare l’input della magistratura ordinaria e la fornitura di materiale da parte di essa, sovente approdata per caso su un certo crimine e quindi ad una certa inchiesta, anziché far bene funzionare anche in sede investigativa e inquirente la propria giustizia, detta appunto sportiva).
Entro nei dettagli. Chi mi ha formulato per primo la domanda è un giornalista sportivo, appassionato di ciclismo, e assai bravo nel descrivere se stesso telespettatore dell’ultimo Giro d’Italia. Si è cioè raccontato benissimo quando vibrava per Tiralongo, sperava che nessuno brutto e cattivo lo raggiungesse, contava che l’amico suo Contador, una volta raggiuntolo, gli lasciasse vincere la tappa, addirittura lo spingesse a vincere la tappa, e alla fine era francamente commosso per la felicità di Tiralongo. Che Contador si fosse prodotto in un gesto assai umano ma contrario alla legge massima dello sport, quella che impone di dare sempre il meglio di sé, e addirittura che una faccenda di doping potesse intervenire in seguito a sporcare tutto, al mio collega non aveva importato proprio nulla, anzi continuava a non importare nulla. Idem a me, si capisce.
Quando quel colloquio è avvenuto non era ancora uscita sui giornali la notizia del calciatore che, avvicinato da un corruttore perché, a pagamento, lo aiutasse a manipolare una partita, non solo non ha accettato, ma ha denunciato la cosa. Un eroe, sì, ma anche uno che ha fatto semplicemente il suo dovere: ammirazione per lui, si capisce, ma si dica pure che la nostra beatificazione della normalità, della giustizia “finalmente”, è una sorta di resa… Forse sapendo del calciatore ci sarebbe stata una reazione del pubblico meno emotiva di quella che ho invece registrato, tutta ma proprio tutta contro il calcio, incapace di ospitare anche un singolo caso diciamo alla Tiralongo.
Ma torniamo alla domanda di base. Per me la risposta esiste, e ho persino cercato, magari con successo, di parteciparla al pubblico. Prima risposta generale: allo sport pulito si può credere, come si crede alla lotta del bene contro il male, della giustizia contro il crimine, cioè sapendo che è una lotta vana, o non mai risolutiva, ma sapendo pure che bisogna portarla avanti, se non altro per potersi guardare allo specchio. Al ciclismo pulito si deve credere, sia perché si sa che esiste il ciclismo sporco, dove è, come è, cosa fa, e dunque si hanno gli strumenti per riconoscere il nemico, sia perché ci sono i casi Tiralongo, sia perché accade, e la gente lo sa e ci sta, che un Contador parta per vincere il Tour 2011 senza sapere se ha davvero vinto il Tour 2010, come ha detto la classifica, e questa stessa gente, appassionata ma anche competente, vuole vedere “come” Contador vincerà di nuovo, persin più che vedere “se” vincerà. Il ciclismo ha la forza di chi conosce la sporcizia e la combatte, il calcio e un po’ tutto lo sport “altro”, troppo ricco, troppo venato da interessi enormi, sa che esiste un nebbione permanente, quello della complicità, quello della polvere d’oro che ricade su troppa gente, e allora anche il signor Rossi non fa certo fatica a non vedere, a non sforzarsi di guardare. Gli basta essere una persona qualunque e come tale si sente in diritto di entusiasmarsi senza approfondire. Il suo sport non gli dà strumenti per distinguere il bene dal male, in cambio gli dà emozioni continue e di facile grana grossa, e lui ci sta.
Sposando fino in fondo il mio ragionamento (liofilizzabile in un slogan: “sono pulito proprio perché conosco lo sporco”) si arriva persino a benedire il doping, o meglio l’antidoping, che ha sgrassato, nettato, piallato, levigato, smussato, amputato. Sembra un ragionamento provocatorio, ma a me pare legittimo e, pensando a come tanto altro sport, il calcio in primis, sa chiudere gli occhi sulle proprie porcherie per settimane, mesi, anni, mi pare addirittura un ragionamento doveroso, che parte dalla legittima difesa. Basta vedere come e quanto il coraggio del ciclismo di ammettersi il doping dentro, però combattendolo a rischio di masochismo, viene guardato con ironia pietistica dal resto dello sport, o almeno dello sport dopato ma senza antidoping serio, a come e quanto le notizie dal mondo del ciclismo vengono usate da troppi per far sì che la propria gente si indigni e non si accorga delle magagne anzi delle vergogne sue, basta questo per esercitare appunto un certo tipo di difesa. Da duri, se necessario, anche se ci si commuove per Tiralongo, anche perché ci si sa commuovere per Tiralongo.
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