Devo proprio scrivere in prima persona, come faccio di rado, sperando di non essere singolare nel senso di bizzarro, assurdo, paradossale. Dunque, scoccate le ore e cominciati i giorni delle scadenze ufficiali, agitate con tanti come me le bandiere giuste, provo a pensare se, nel mezzo secolo e passa di sport che ho frequentato a fondo, anche per guadagnarmi da vivere, questo stesso sport mi ha dato segnali di Unità; l’Unità con la maiuscola, quella dell’Italia, non quella degli atleti che magari fanno consorteria, dei dirigenti che magari fanno cricca. Cerco ovviamente cose mie, se del caso molto mie. Facile sentirsi italiano a Parigi il giorno in cui Gimondi vince il Tour, a Madrid il giorno in cui la nostra Nazionale di calcio conquista il titolo mondiale, per non dire a Roma quando il mio compagno di scuola Livio Berruti diventa campione olimpico dei 200 metri.
Dico subito che il ciclismo in questo senso mi ha dato più di ogni altro sport, quasi mi ha dato, da solo, come tutto il resto dello sport, dello sport mio, della mia vita intendo dire, messo insieme. Un po’ perché ho frequentato tanto ciclismo, un po’ perché - lo penso davvero - il ciclismo “fa” unità spesso e bene, nella maniera più giusta, che non è quella dell’arroganza, della derisione verso gli altri, del settarismo. E passo a cercare episodi particolari.
Bene, nel ciclismo scelgo un giorno di Pasqua in Belgio, si trattava del Giro di quel piccolo paese, fatto grande per noi da Adorni che lo stava vincendo (era il 1966, non ha nessun senso cercare la data esatta). Se ricordo bene la tappa ultima partiva da Ostenda. Nevicava, una neve non natalizia come è quasi sempre la nostra, l’allegra buona neve italiana, ma una neve brutta e cattiva fatta di piccoli aghi duri. La tappa fu penosissima, si arrivava a Bruxelles, Adorni tenne bene e fu sua la vittoria finale. Quel giorno non si lavorava, a Bruxelles mi “crebbero” alcune ore, passeggiavo con il collega caro Fulvio Astori che adesso non c’è più e incontrammo per caso due suoi colleghi del Corriere della Sera, due grandi penne, il celebre Max David e il grande amico mio Paolo Bugialli. Erano nella capitale belga per scrivere dell’Europa che si stava sempre meglio precisando, articoli grossi e ponderati, mica le nostre affannate cronache ciclistiche. Vollero sapere chi alla fine aveva vinto, lo dicemmo, scoppiarono di gioia, vollero offrire immediatamente (faceva un freddo cane) una bottiglia di vino da bere insieme, il vino allora in Belgio carissimo, in un bar del centro. Pe poco che li avessimo spinti, avrebbero cantato l’inno di Mameli. Ero (e sono) un piccolo giornalista, piccolissimo poi se paragonato a quei due, ma con loro mi sentii un italiano: oh, non un grande italiano, semplicemente un italiano felice di esser tale.
Nel calcio scelgo un giorno del 1973 allo stadio londinese di Wembley. L’Italia riuscì per la prima volta a sconfiggere l’Inghilterra in Inghilterra. Gol dell’1 a 0 di Capello a 4’ dalla fine. Io riuscii a ruzzolare e razzolare nel prato, quando ancora i calciatori non erano usciti dal campo, andai negli spogliatoi a fianco di Capello, ci sfiorarono molte bottiglie di birra mezze piene o mezze vuote. La vigilia la meglio stampa di Albione aveva parlato di tifosi italiani che a Londra facevano i camerieri e i lustrascarpe. Fui molto felice di essere italiano come loro.
Nel pugilato un giorno non so manco più di quale decade, comunque era Las Vegas, Nevada, Usa, l’albergo che in suo immenso cortile-stadio ospitava il match mondiale di boxe, pesi medi, fra Vito Antuofermo detentore e Marvin Hagler sfidante era il celebre Cesar’s Palace. Antuofermo viveva da anni a New York o meglio (cioè peggio) nel Bronx, ma teneva il passaporto italiano, lui nato a Palo del Colle presso Bari. Fu pareggio, forse aveva vinto Hagler ma i giudici avevano tenuto conto del fatto che lo sfidante deve fare chiaramente di più del detentore, se vuole scalzarlo. Antuofermo era una maschera viola di lividi tremendi. Non riuscii a fare festa per lui, troppo pesto. Ma mi era bastato eccome il padre suo, il giorno prima. Nella hall del lussuoso albergo si era quasi accapigliato con giornalisti statunitensi che gli dicevano che il figlio era da considerare statunitense. Aveva urlato che lo aveva fatto lui, lo aveva fatto assolutamente italiano, e aveva sfoderato il proprio organo riproduttivo, per mostrare da dove aveva avuto origine quel figlio speciale. Lì per lì la scena può sembrare tremenda. Ma soltanto un italiano che si è sciroppato la vita tremenda dell’emigrante ha il diritto di rivendicare le origini sue e dei suoi figli con una veemenza speciale e tanto tipica, nostra nostrana, insomma quella di Antuofermo padre. E tanto peggio per le damazze made in Usa che avevano assiste inorridite (ma non troppo) alla cosa.
Di nuovo il ciclismo. Un paio di anni fa ero a Briançon, stazione sciistica francese a 120 km da casa mia, meta di tanti che, torinesi come me, vogliono spendere di meno e sciare di più che in Italia. Con alcuni dei miei molti nipotini passai il ponte che, nella città alta, lega le mura ad una collinetta dove sta un forte. Prima del ponte un breve porticato, con un lapide, la scritta in italiano: “Briançon a Gino Bartali il Pio”. E il ricordo delle vittorie di Gino su quel traguardo importante e molto”nostro”, un elenco che agganciava anche Fausto Coppi. I miei nipotini vollero sapere il perché di quella lapide, fui felice di spiegarlo, avvertii che in fondo non avevo fatto il giornalista sportivo invano. E avvertii nei miei nipotini un senso di Italia che in nessun altro modo sarebbe stato acquisito così fermamente.
Non c’è retorica in questi miei ricordi. Non mi servono neanche per cancellare tutte quelle volte, non poche, in cui mica sono stato contento - per come ci siamo comportati, ego quoque - di essere italiano. Semplicemente, invecchiando mi dedico alle “nugae”, le piccole cose che Pascoli cantava intanto che Carducci ruggiva le cose grandi. La mia personale Unità è anche questa. E tengo un dubbio: devo scrivere anche in questo caso Unità con la maiuscola?
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