A Pontremoli, il paese dei librai bancarellari, in occasione del premio Raschi, andato quest’anno a un altro Bruno, Pizzul, c’è stata una serata-Coppi, con Faustino figlio del Campionissimo, corridori antichi della Lunigiana, di quelli che hanno pedalato con Fausto e ovviamente anche con Gino, e testimoni assortiti del mondo del giornalismo e della letteratura. Si è parlato più del Coppi che lo scorso15 settembre avrebbe avuto novant’anni che del Coppi che il 2 gennaio prossimo verrà celebrato nella ricorrenza dei cent’anni dalla scomparsa.
Una serie di formidabili immagini ciclistiche, cinematografiche e televisive, ha permesso la formulazione di domande assortite sul come sarebbe adesso questo novantenne, se la malaria che lo schiantò mezzo secolo fa fosse stata individuata e curata in tempo. La sensazione di tutti era quella che, se Coppi avesse superato quell’agguato, sicuramente sarebbe diventato vecchissimo, perché in carriera aveva sì dato molto, ma specialmente in ossa rotte, e non era logorato nel fisico, che le fratture avevano costretto a riposare, che la sua dedizione alle diete e alle rinunce (niente fumo, niente alcol) aveva corroborato, che le pastigliette blande di allora certamente non avevano minato. Il tema dunque di un Coppi lucidamente presente nel ciclismo di oggi e dei suoi comportamenti conseguenti è apparso a tutti noi valido e interessante. Non funziona lo stesso gioco con Bartali, per la semplice ragione che dal 1954 quando smise di correre al 2000 quando smise di vivere Gino letteralmente si denudò e si svuotò abbondando in giudizi, sentenze, rimbrotti, facendo sapere cosa pensava di tutto e tutti. Nessun mistero, dunque, sulle sue eventuali reazioni ai guasti attuali, che lui previde e in embrione frequentò.
Torniamo dunque su Coppi. Confessiamo che il gioco di immaginarlo adesso ci piace. Né ci impedisce di praticare a fondo questo gioco la conclamata ritrosia naturale di Fausto: pensiamo che Coppi parlava poco soltanto perché per lui, quando era corridore, parlavano i fatti. Da ruvido piemontesaccio quale era, sicuramente metteva da parte tante cose, per dirle al momento debito (quel momento che non sarebbe arrivato mai). Pensiamo che con un Coppi ottantenne, nel 1999, ci sarebbe stato magari un altro Pantani, perché inevitabilmente si sarebbe creato un legame e forse anche una dipendenza fra i due, e Fausto sarebbe stato coinvolto in qualche operazione di guida e responsabilizzazione di Marco: il 1998 di Giro e Tour nello stesso anno non sarebbe stato, come dire?, sciupato, o comunque avrebbe avuto ben altre luci, ben altri riferimenti.
Proprio perché abbiamo conosciuto e sperimentato ed apprezzato il Bartali assolutamente non sacerdotale, non solenne nei quarantasei anni - dal 1954 al 2000 - passati da lui nel ciclismo postagonistico, siamo certi che ci sarebbe invece stato - rispettando in fondo la splendida distonia fra i due, antagonisti in tutto - un Coppi guru, quasi papale, decisamente didascalico. Con un impatto fortissimo sulla cosiddetta opinione pubblica.
Ma non ci pare proprio questo il posto né il momento per partecipare questi nostri pensieri, per approfittare di carta e inchiostro onde partecipare pareri personali approfittando di ricorrenze che impegnano a pensare. Semplicemente proponiamo il gioco, poi facciamo all’indietro il ponte dei nostri sospiri e, nel 2010 dei cinquant’anni da Fausto e dei dieci da Gino, ci condiamo il lusso semplice della nostalgia, praticata poi da vecchietti. Amen.
hhhhhhhhhh
Mi è venuta in mente l’altro giorno la più bella - secondo me - commemorazione giornalistica di De Zan, otto anni lo scorso 24 agosto da che se ne è andato. Poche righe su La Stampa firmate da Gianni Riotta, soltanto un’elencazione di cognomi di ciclisti celebri e no tante volte elencati da Adriano annunciante l’arrivo di una corsa, e poi un ciao al telecronista fatto rivivere splendidamente da quella appassionata cantilena. E ho pensato, pensando ai nomi che De Zan snocciolava, se adesso ci sarebbe materia prima per una sequenza interessante come quella proposta da Riotta. Cognomi, voglio dire, che urlino o dicano o sussurrino qualcosa. E ho dovuto decidere di no. Non so se sia questione di valori o semplicemente di sound, ma ho provato a recitarmi dentro alcuni elenchi, nessuno mi ha dato qualcosa.
hhhhhhhhhh
Una certa moda intellettuale di adesso consiste nell’indire convegni su come mai il ciclismo tiene ancora, come presenza di pubblico, e anche specialmente nei posti più impervi, nonostante il doping e le sue brutte storie e nonostante l’assenza di pedalatori campioni assoluti, universali. C’è chi da questo fatto, incontrovertibile, argomenta la stupidità della gente, l’intelligenza poetica della gente, l’immortalità del ciclismo, la voglia eterna di fatica semplice, e tante altre cose così. C’è chi parla di sentimenti assoluti, chi di sentimenti relativi, fatti preziosi dalla decadenza sentimentale di un po’ tutto l’altro sport. Così facendo si rischia però di perdere di vista l’essenza della cosa: molto semplicemente, la gente ha sempre voglia e bisogno di ciclismo, ancora più che di ciclisti. Tentiamo un paragone audace, a tema religioso: mancano i santi, mancano anche i parroci, il clero purtroppo dà brutti esempi, ma la gente continua a riempire le chiese, perché ha bisogno di religiosità. E se poi in tema di religione santità e vocazioni sono accompagnate anche dalla diserzione dei locali di culto e di preghiera, è questo mondo in crisi che deve inviduare e studiare la forza sentimentale del ciclismo, anziché dissertare su inesistenti rarefazioni di passione e di appassionati.
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