Domanda cosmicomica rivolta a se stesso da chi scrive questa rubrica: quando nel nome del ciclismo ti invitano a qualche convegno-tavolarotonda-dibattito-convegno-seminario-congressino-premiazione-banchetto-eccetera, significa che sei bollito, per anagrafe o altro, così che i ciclofili vogliono terribilmente e semplicemente godersi le tue acrobazie, riuscite o meno, di memoria e farsi magari due risate oltre che farti duemila correzioni-precisazioni, oppure che il mondo delle due ruote crede ancora nelle parole, e se queste parole espongono anche sentimenti tanto meglio.
Per squallide ragioni anagrafiche mi trovo spesso invitato, da “reduce”, a questa o quella manifestazione, a priori piacevolissima come programma, intenti, premesse e promesse. Ho sempre paura di finire per fare la parte del vecchietto che nei film western sta nel saloon ad un tavolo abbastanza decentrato (nel senso che le cose vere o meglio importanti accadono altrove) e scaracchia i suoi ricordi, le sue presunte verità, addirittura le indiscrezioni tenute a lungo nel gozzo. Tutti fanno cenni di assenso quando lui parla, tanti si scambiano sguardi d’intesa, come a dire: è un po’ suonato ma è un bel simpaticone.
Pratico sempre questa paura, che trovo legittima e onesta, ma devo ammettere che ultimamente mi sono convinto, a colpi di conferenze, discussioni, riunioni eccetera, che quel ciclismo che considero mio, e che dunque devo considerare anche datato, non solo ha sempre una sua presa, che potrebbe semplicemente nascere dalla simpatia di tutti per tutti di cui è in linea di massima pervaso il mondo delle due ruote senza motore, ma ha una sua validità continua, assoluta (al punto che mi verrebbe da definirla: eterna). Insomma, rischio addirittura non solo di non dire troppe scemenze, ma anche di dire cose valide e bene accette pur se si tratta di critiche. In alcuni posti mi danno persino dei soldi, per rimborsarmi le spese di trasferta o addirittura omaggiare la mia prestazione, e mi sento insieme contento e imbarazzato.
Vengo al punto, anzi ad un punto. Facendo giornalismo sportivo dal 1953, e avendo anche tenuto la direzione di un quotidiano per quattro anni intensi e difficili e stimolanti, sono passato pure attraverso la pratica giornalistica di tanti altri sport, in primis anzi se volete in primissimis del calcio. Bene, quando vado a parlare di calcio non sempre riesco a dire tutto chiaramente, non sempre cioè trovo quell’intesa con il pubblico che è alla base di un sereno conversare, in cui io parlo molto e gli astanti parlano poco ma per piazzarmi addosso domande che sono banderillas. Vero che quasi sempre a queste riunioni ciclistiche si mangia anche, e si mangia di regola meglio che in quella calcistiche (non so il perché, ma i fatti parlano, i sapori sentenziano), e dunque l’ambiente aiuta eccome, ma davvero non penso che la questione sia riducibile ad un problema di materie prime commestibili, di salse e di cotture più o meno giuste. Esiste nel parlare di ciclismo una essenza diversa, speciale, superiore a quella che esiste nel parlare di calcio. Qualcosa che nutre meglio e che nutre più sanamente. Anche se si parla di doping.
Un giorno neanche lontano mi è addirittura accaduto di ricevere il grazie quasi quasi commosso di Felice Gimondi - un campione, un amico -, dopo che avevo detto che lo sport senza doping si spiega soltanto con l’assenza in esso di antidoping serio, e che di questo passo il ciclismo, ripulitosi con coraggio e senso del sacrificio, sarà in grado di negarsi ai Giochi olimpici perché troppo sporchi per lui (quando conosceremo la contabilità esatta dei controlli e delle positività a Pechino 2008?). Felice mi ha dato tanto quando ero corridore, compresa la sua disponibilità piena per un’intervista lunga, faticosa, serale la vigilia della conclusione del suo Tour vittorioso del 1965. Ero in debito con il campione e anche con l’uomo che un giorno, sollecitato da me al gioco del “cosa fare se potessi esercitare, per una volta ed una cosa sola, un potere assoluto?”, mi disse che avrebbe usato la speciale bacchetta magica per tornare indietro nel tempo e poter chiedere scusa a tutti i tifosi con i quali, stanco, sfatto, teso, non era stato gentile al traguardo, addirittura (addirittura!!!!) arrivando a trattarli maluccio se ad esempio gli davano fortissime pacche sulle spalle… Il mio debito dunque continua crescere, ed è bellissimo avere un debito sapendo che il creditore non solo non vuole che tu glielo paghi, ma spera che il suo credito aumenti.
Chiudo con la rinuncia a cavare una morale dal mio eloquio presso il pubblico e magari da questo mio sproloquio per i lettori. Troppo facile dicotomizzare il mondo, chez nous tutto il bene, nel calcio tutto il male. E poi chi sono io per poter sentenziare? Al contrario del vecchietto del saloon, persuaso di emettere dogmi insieme con qualche sputacchio, io non dico mai che i miei tempi, le mie cose, le mie fedi, le mie esperienze sono le migliori, o sono migliori di altre a cui mi vien bene contrapporle. No, io dico soltanto che si tratta di due cose diverse, e però insisto perché la diversità venga riconosciuta. Poi ognuno scelga se riconoscerla all’insù o all’ingiù. Sono riuscito in Spagna a non sentenziare sul nostro e sul loro prosciutto, e dire che da quelle parti lo straniero può rischiare il linciaggio se non ammette la supremazia del divino Jamòn Serrano Jabugo Pata Negra su qualsiasi Parma o San Daniele, volete che abbia paura in Italia a dire che il calcio e il ciclismo, come i prosciutti, sono diversi?
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