Bisogna avere il coraggio di dire che il ciclismo non ha capito le Olimpiadi o che le Olimpiadi non hanno capito il ciclismo. La stessa cosa, in fondo: importa dove si arriva, non da dove si parte. La prova olimpica su strada, a Pechino come ad Atene fissata all’inizio dei Giochi, quasi a chiedere scusa del disturbo e a toglierlo il più in fretta possibile, come “resa” è messa dai corridori sul piano di una classica, neanche delle maggiori. Il fatto che gareggino appena in cinque per nazione, i Giochi olimpici sono un fatto sportecumenico e devono essere aperti a tutti i paesi, fa sì che tante, troppe corse del resto della stagione vantino un lotto di partenti assai più qualificato e importante e persino stimolante, ancorché legato a pochi paesi (che però sono quelli che contano). Nessun vincitore, per grande che sia di nome e di valore, riesce a intitolare la sua stagione alla prova olimpica: mentre in altri sport questa addirittura si sovrappone, schiacciandole, alle gare di tre anni e trecentosessantacinque giorni (l’anno olimpico è bisestile e dunque ha trecentosessantasei giorni).
Il problema è se si debba fare qualcosa per contrastare questa tendenza, anzi questo dato di fatto, o se si possa comunque vivere, sopravvivere, stravivere senza avvertire l’epica e la poetica olimpiche. Il calcio dei Giochi olimpici se ne infischia, e il calciatore celebre che ci tiene a disputarli sembra un pazzoide, un demagogo, un sentimentaloide da poco: e il pallone del football resta nel cartellone olimpico soltanto per saziare di una gloria meno difficilmente raggiungibile il Terzo Mondo e casomai anche il Quarto. Il ciclismo per tanti anni si è offerto all’olimpismo nella sua versione dilettantistica, poi quando la faccenda è diventata troppo sporca, nel senso di troppo bugiarda, c’è stato il ciclismo open, del quale però frega meno che il ciclismo dei “puri” di una volta, quando almeno si poteva giocare al gioco di scrutare il futuro professionistico in occasione della parata dei talenti emergenti, o addirittura di ipotizzare sfide teoriche fra i dilettanti di stato, vecchi pedalatori dei paesi del socialismo reale, e i loro omologhi dichiaratamente professionisti e in quanto tali esclusi dal consesso olimpico.
Da Pechino 2008 a Londra 2012 si discuterà se tenere o non il ciclismo nei Giochi, però mancherà un interlocutore fondamentale: il ciclismo stesso, che vede i cinque cerchi, al massimo, come una offerta di ruote di ricambio se nella stagione ci sono state troppe forature comportamentali.
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Per alcuni giorni il nome di Riccò ha campeggiato sulle prime pagine dei giornali francesi, e non diciamo soltanto dell’Equipe. Riccò anche nei titoli, nei titoloni. Riccò nel bene e nel male. Però scritto senza l’accento: Ricco. Automaticamente in francese si accenta la “o” finale e si annulla la doppia “c”. Così i francesi, che sono bravissimi intanto che gaglioffisismi nel francesizzare i nomi stranieri (Copì, Nansinì, Gimondì, Pantanì) non hanno dovuto neanche sforzarsi: fosse stato Ricco, senza la “o” accentata, avrebbero dovuto effettuare una minima operazione di stravolgimento. Così, invece, possono anche essere arrivati a pensare che noi abbiamo acentato il nome per farlo personaggio da Tour, per omaggiare la repubblica di Carlà (che a Torino in dialetto piemontese viene chiamata la prima madamìn, e non dite che non è bello).
Certo che bisognerebbe metterci d’accordo, almeno con i francesi, sulla pronuncia almeno dei nomi propri. Ma siamo servili, davvero. Così noi diciamo bene Cannes e loro dicono male Sanremò. Vedete come si va lontano pedalando con Riccò: altro che sino ai Pirenei.
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Prima persona un po’ singolare. Sto rimettendo insieme un libro giallo sul Giro, devo adattare la vicenda, scritta in un passato lontano, ai tempi nostri. E devo inserire una grande novità.
No, non l’auricolare in corsa, non la chimica sofisticata, non l’alimentazione superstudiata, non la bicicletta in titanio, non il pneumatico che non si buca mai, non la necessità per il corridore di essere anche un buon animale televisivo, non il processo alla tappa dove ti blandiscono, ti ungono, ti pelano, ti scuoiano. Non internet servizievole, non elettronica in sala-stampa. Niente di tutto questo. La grande differenza è costituita dal telefonino. Tutta la trama di allora deve essere mutata se si vuole la vicenda datata ai nostri giorni. Mutata o almeno sintonizzata, adeguata, sottomessa al telefonino. Che ci ha cambiato la vita e che nel libro, un giallo, cambia la morte.
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Gian Paolo Ormezzano non c'è più. Ha posato la penna ed volato via. Aveva 89 anni e per una vita intera ha raccontato il mondo dello sport e il mondo attraverso lo sport, conservando sempre un posto speciale nel suo...
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