I l pretesto sono le lacrime di Bettini a Stoccarda. Ma ne siamo ormai lontani, quanto a impatto immediato, e le usiamo allora per trattare, nel nostro intensissimo piccolo, il tema della commozione nello sport. È un tema importante, visto che si parla di sentimenti o presunti tali. È un tema non nuovo, ma soggetto ultimamente a un restyling, come si dice del design delle automobili, delle lavastoviglie, degli spremiagrumi, delle grattugie elettriche e presto si dirà anche degli stuzzicadenti, che ormai vanno studiati di tipo diverso, moderno, anzi consono ai tempi nuovi.
Una volta era semplice: uno piangeva, quasi sempre di commozione perché era commosso. Uno nello sport, ma non solo: uno nel mondo. C’erano altri tipi secondari (o no, a seconda dei punti di vista) di pianto: per dolore, per rabbia, per emozione, per umiliazione, persino per dolore fisico, ma erano abbastanza rari.
Adesso nello sport si continua magari a piangere di commozione come si faceva una volta, ma si classificano vari tipi di commozione: da quella, classica, perché si pensa ai sacrifici sin lì fatti e ai sacrifici in meno da fare una volta raggiunto quel determinato traguardo, a quella molto specifica, personale, perché dedicata ad una persona amata, a una persona che non c’è più, a quella, un bel po’ contorta ancorché comprensibile, dovuta al fatto che si pensa che con i soldi della gloria, quantificati subito dal premio, poi dal cosiddetto indotto, si può pagare il mutuo della casa, comprare l’anello prezioso alla moglie, persino fare andare avanti gli studi dei figli. Nello sport come, ripetiamo, nel mondo. Alla Rai e a Mediaset i programmi a premi, che di solito sforano come orario e dunque devono essere chiusi “al volo”, prevedono ormai che all’inizio il concorrente a qualche quiz precisi a cosa servirà la somma che sarà eventualmente vinta, così che se vince ci si commuova, pensando alla tenera destinazione del denaro, anche se lui viene sbattuto fuori dal video perché il tempo è scaduto. Ci si commuova pensando a come e quanto sarà gratificata la sua nonnetta lontana, che finalmente avrà il plaid in lana preziosa e calda, anche se lui non è più lì a ricordarcelo magari è già scattata la pubblicità di un fissatore per dentiera o di un telefonino che fa tutto, e se messo nel latte fa anche la panna a e lo yogurt.
Abbiamo parlato di commozione, ma non è mica del tutto giusto. Non escludiamo che il campione, vittorioso o anche sconfitto in maniera particolare, possa provare ancora, in positivo o in negativo, questo sentimento puro e semplice, ma lessicalmente bisognerebbe forse inventare qualcosa di nuovo. Una vittoria vuol dire ad esempio la felicità dello sponsor, oltre che del vecchio dirigente appassionato di paese. Una vittoria vuol dire calamitare indotti sino a quel momento imprevisti, commozione è un termine vasto che ne ingloba altri: calcolo, soddisfazione, felicità anche materiale.
Persino la splendida commozione di Bettini, fatta di rabbia pura e quindi commozione essenziale, supersincera, ha avuto il risvolto di un probabile e intanto pregustato trionfo giudiziario, in sede anche penale, quando sarà tempo di quantifica e l’insieme dei danni che le cosacce sputate alla vigilia hanno provocato. Lui l’ha fatto bene intendere. Una situazione simile alla sua in sport decisamente più scafati del ciclismo sarebbe ormai un caso vistosissimo, internazionale, mondiale. Nel ciclismo si crede ancora che la pacca sulla spalla e l’intronizzazione come propagandista itinerante dello sport più bello del mondo siano accorgimenti di pace possibili, strumenti psicologici usabili. Ma Bettini farà cambiare idea a qualcuno.
Resta comunque il fatto, inoppugnabile anche se impossibile da dimostrare scientificamente, che la commozione del ciclista è la massima possibile, ancora possibile, nel mondo dello sport. Se qualcuno di altri sport, lo batterà, sarà sicuramente perché attore svagato, tanto bravo quanto gaglioffo, furbastro. Sicuramente dirà di meno, probabilmente non farà il gesto del fucile puntato, o lo farà per scuola per imitazione.
Ricordiamo che il giorno prima di quello del trionfo di Bettini c’era stata, per lei come per le ciclistesse come per tanti astanti la commozione di Marta Bastianelli, anche quella abbastanza contagiosa: nel senso che pure in quell’occasione, la prova mondiale delle donne, sicuramente in tanti, davanti al video, si erano “associati”. Però quella era stata una commozione classica, condita anche di poche speranze alla vigilia, e assolutamente senza rabbia. Né pensiamo che le pur nuove prospettive di vita della bravissima signorina pedalatrice siano diventate di colpo tali da generare in lei la commozione indotta per i sogni che si realizzano. Commozione di tipo primo, semplice, ultralogica. La commozione di Bettini è di tipo decisamente più avanzato: non perde nulla della vis semplice, tradizionale, classica, ma ci aggiunge altri elementi di forza.
Bene, alla fine di un discorso abbastanza contorto vogliamo tentar di dire, semplicemente, che come ci si commuove nel ciclismo, per quantità e qualità, non ci si commuove in nessun altro sport. In attesa di arrivare magari a dire che nel ciclismo ci si commuove, altrove ormai si frequentano atteggiamenti e magari anche sentimenti di tipo diverso, ancorché “parenti” della commozione vera e propria. Ricordiamo che mai nessun ciclista ha mai detto “ciao mamma, sono contento di essere arrivato uno”, ma che molti credono che sia invece avvenuto così. E la cosa non ci disturba, anzi: meglio amare uno sport che autorizzi tale credenza che uno sport che non la autorizzi affatto.
Se poi non riusciamo a farci capire, scusateci. Il fatto è che per Bettini siamo ancora commossi, e la commozione non propizia la lucidità, anche se è commozione cristallina.
hhhhhhhh
Personalissimo: più volte ho scritto che certi nostri articoli di esaltazione del campione e di una sua vittoria andrebbero postillati con un “s.d.”, che sta per salvo doping. Tanto per cautelarci di fronte alla possibilità di doverci rimangiare tutto: come ci accadde nel 1988 per lo sprinter dell’atletica Ben Johnson, ai Giochi olimpici di Seul. Ma nel caso di Bettini penso proprio che la postilla sarebbe insieme inutile e cattiva. Associamo la sua patente limpidezza a quella di altri - pochi - grandi e anche recenti personaggi dello sport che abbiamo avuto la fortuna di conoscere (un nome e cognome per tutti: Stefania Belmondo). Personaggi per i quali ci è occorso, ci occorre e speriamo ci occorrerà sempre di dire: se sono dopati quelli, allora il doping fa un gran bene e sia dato a vecchi e bambini.
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