Le storie italiane, poniamo quella in cui è stato coinvolto Danilo Di Luca, possono forse essere più tangibile espressione di come il ciclismo sia oggi vittima o ostaggio, bersaglio dichiarato o ingenuo apprendista, del degrado della nostra società. Ma di certo, al di qua dei Massimi Sistemi i cui ingranaggi hanno certamente maciullato il nostro sport umilmente terreno, è una emblematica - e troppo sottostimata - vicenda quella che si è recentemente consumata in Slovenia. E che ha coinvolto clamorosamente, tanto per cogliere il rilievo almeno locale dell’episodio, il vincitore del Giro della Slovenia del 2006 e di quest’anno pure: Tomaz Nose, classe 1982, Adria Mobil.
Bene, a metà agosto scorso, Tomaz Nose è stato privato, per aver utilizzato un prodotto dopante maggiore vietato, della vittoria ottenuta nel Giro della Slovenia 2006, invitato a restituire tutti i premi vinti nella occasione e penalizzato - ponete ascolto - con 20 mesi di sospensione: “da novembre 2006 a luglio 2008”, il che avrebbe comportato di fatto lo stop innanzitutto in quello stesso periodo in cui Nose si aggiudicava l’edizione di quest’anno del suo Giro, posto d’onore per Nibali, tanto per curiosare, così come Golcer era arrivato secondo nel 2006.
Nose è stato squalificato, e qui comincia la atipia scandalosa della storia, per avere utilizzato Testoviron, un ormone sessuale maschile ad attività anabolizzante, in base ad una prescrizione eccezionale (utilizzo per esigenze terapeutiche, “TUE”) firmata addirittura dal dottor Josko Osredikar, membro del Comitato olimpico della Slovenia...
Una autorizzazione terapeutica, e qui continua la farsa, valida però solo per le gare nazionali in Slovenia: e non per le corse internazionali, e qui casca l’asino, quelle disputate sotto l’egida ed i regolamenti UCI, per intenderci.
Fermo restando che il Testoviron è una arcinota sostanza ad azione dopante riconosciuta, si resta francamente perplessi di fronte a cronache di questo genere: dove medici, federazioni nazionali, stavolta olimpiche, e ciclisti in odore di vittoria sembrano ingenuamente convivere. O colpevolmente connivere.
E in questo contesto, sulla stessa squallida lunghezza d’onda, a dimostrare che il vizio del milieu ciclistico continua a non demordere, è totalmente censurabile un recente intervento di Perico Delgado, il ciclista spagnolo che riuscì a vincere il Tour del 1988 solo perché positivo ad una sostanza, il Probenecid, un diuretico ad azione mascherante, che era riconosciuto in quella stagione doping per il CIO e non ancora per la retriva UCI, presieduta guarda caso dallo spagnolo Luis Puig. E Delgado, invece di spiegare venti anni dopo a cosa poteva mai servire
un diuretico sulle Alpi e sui Pirenei, ha dichiarato testualmente: «il doping va combattuto, ma senza pubblicità, perché così si stravolgono gli eventi agonistici e gli sponsor vanno via». «E poi non è il doping la priorità del ciclismo moderno».
Certo: lo è, forse, voleva precisare l’ex corridore della Reynolds, la morale restituzione dei Tour, come ha sostenuto orgogliosamente il più forte, e molto meno mediterraneo, Rjis. E non solo dei Tour della dolce Slovenia del modesto Nose, in debito (ahilui) di testosterone e di un medico di parte meno dilettante.
Gian Paolo Porreca,
napoletano, docente universitario di chirurgia cardio-vascolare, editorialista de “Il Mattino”
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