aro Michele,
mi ha dato un piacere enorme la notizia che tornerai a correre tra i professionisti, in questa nuova stagione. I tuoi 24 anni, non ancora compiuti, meritavano che ti fosse offerta una possibilità di riscatto in quella tua scelta di vita, e di lavoro se possibile, che è stata il ciclismo.
Mi sembra giusto, così, non parlare di quel che ti è accaduto in un passato non remoto e che solo tu conosci per intero: tra errori, cattivi consiglieri, ingenuità, frenesia di bruciare le tappe agonistiche.
E mi sembra ancora più giusto condividere il tuo desiderio di guardare avanti e di proporti con umiltà - come hai detto - l’obiettivo modesto «di poter disputare e portare a termine senza problemi una stagione intera da ciclista professionista». Senza l’obbligo condizionante della vittoria, costi quel che costi: solo pedalare in gruppo, sentirsi parte di un progetto, correttamente, e per un anno pieno.
Ed hai più volte sottolineato che in questo nuovo approccio al ciclismo sarà per te un incentivo particolare, anzi ineguagliabile, l’evento felice
che ti ha da pochi giorni arricchito: la nascita di un primo figlio, la tua bambina.
Che nel suo segno, con i suoi occhi a renderti più forte il cuore, andrai a scalare l’Everest del riscatto, dopo un primo forzato congedo amaro.
Caro Michele, è molto emozionante l’urgenza gridata di questo sentimento di padre, ma consentimi di sollecitare in te anche una mozione di affetto diversa, da quel figlio che resti ancora... Dedicherai questo ritorno a tua figlia, giusto, ma io ti chiedo di dedicarlo appunto anche a tuo padre V., a quell’appassionato di ciclismo, brillante cicloamatore, che per tanti anni ti ha visto crescere e ti ha portato al suo mozzo e poi un giorno atteso o inatteso ti ha detto, come un lecito lancio all’americana in uno sprint, «vaaaiiii».
Io, tu c’eri appena nel mondo, correvo - o meglio ancora “partecipavo” - alle corse che lui vinceva, venti e più anni fa, nelle estati trascorse al mare in un’isola del golfo di Napoli, e ne ammiravo il valore, il talento indiscusso, «sei come Saronni, con la sola differenza che tu hai i baffi!», gli dicevo quando lo incontravo: alla partenza, o dopo il traguardo. Erano gare di strapaese, da feste patronali, tra San Rocco e Sant’Antuono, dove ci si chiamava ancora per nomi d’arte: Luigi detto «il Mastino», Pietro detto «il Cavaliere», Paolo detto «il Dottore».
E spesso arrivava buon ultimo Giacomino, «il Panettiere»: ultimo, con rispetto massimo, ed in assoluta onestà, solo perchè quel ragazzo biondo aveva dovuto lavorare al forno tutta la notte.
In nome di quelle corse, di quel ciclismo a pane e vino, ti invito oggi, caro Michele, a meditare per un attimo di gratitudine in più sul passato e sull’amore di tuo padre, sulla sua speranza di vederti diventare un giorno ciclista maggiore di lui.
Quell’auspicio bruscamente mortificato, negli anni scorsi, per colpa certo di un mondo e non solo di un ciclismo cambiato. Ed oggi, per una nuova sorte benedetta, riacceso. Lo champagne della vittoria, se e quando verrà, versalo pure per la tua dolce bambina e per la madre.
Ma la lezione preziosa dei giorni pazienti, dei sofferti chilometri della corsa e della vita da recuperare con onore, quella donala, come fosse un mazzolino di ginestre del monte Epomeo, a tuo padre. Ed alla sua ritrovata stretta di mano. Da non lasciare mai. Anche quando non ci sarà.
Con affetto,
«Il Dottore»
Gian Paolo Porreca, napoletano,
docente universitario di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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