di Gian Paolo Ormezzano
Mi accade sempre più spesso di dire due parole, un nome ed un cognome, e di leggere il punto interrogativo sul viso della persona con la quale sto parlando. Dico Eddy Merckx, e poi devo spiegare chi è. Ovviamente se sto parlando con uno del ciclismo il problema non esiste, ma non esisterebbe anche se dicessi Fausto Bertoglio. Però la faccenda di Eddy Merckx è abbastanza seria, e mi sto preparando al giorno in cui dovrò spiegare chi era Fausto Coppi, chi era Gino Bartali, chi era Fiorenzo Magni.
Mentre nel calcio se dico Pelè, che era il Merckx del pallone e che ha cominciato a vincere grosso quasi dieci anni prima di Merckx, con il Mondiale del 1958, non rischio nessun punto interrogativo.
Giuro che spiegare chi era Merckx mi viene difficile. Primo perché sono irritato, se non altro con me stesso, che facendo il giornalista dovrei avere contribuito e ancora contribuire all’operazione di mantenimento nel divenire del tempo dei nomi storici. Secondo perché a mano a mano che elenco i suoi successi mi rendo conto che sto parlando turco con l’interlocutore. Terzo perché mi accorgo, mentre mi infervoro, che sarebbe come se raccontassi ad uno che fa il servizio civile le vittorie militari di Napoleone. Quarto perché, se per caso il mio interlocutore si interessa di questo Merckx, va sempre o quasi a finire che mi chiede come mai i belgi non hanno prodotto anche grandi campioni calcistici oltre che ciclistici, e i loro vicini olandesi invece hanno sì vinto appena due volte il Tour de France, ma hanno dato al gran mondo del pallone Cruyff e tanti appena un pochino sotto di lui: e allora entro in grandissima crisi. Quinto, sesto, settimo eccetera perché comunque mi accorgo che con certo mio sport faccio dell’antiquariato che io penso sia prezioso, altri più giovani di me pensano che semplicemente sia tarlato.
E’ vero che allenarsi a spiegare chi era Merckx mi serve per quando dovrò spiegare chi era Coppi, e che fra tre anni saremo al mezzo secolo dalla sua scomparsa e si terranno celebrazioni che lo riproporranno eccome, così come scadenze varie lo hanno tenuto presente nel ricordo, nelle commemorazioni, da quel 2 gennaio 1960 ai nostri giorni. Ma lo sconcerto per la “perdita” di un campione il quale, ancorché belga, mi sembrava stare eccome al centro del mondo poco più di trent’anni fa è cosa balorda. E se fingendo di interessarsi al mio ricordo qualcuno mi chiede lo spelling del cognome Merckx, mi prende paura di sbagliare, intanto che so che in realtà al tizio non ne può fregare di meno, vuole soltanto gratificarmi della sua attenzione per le mie memorie di vecchietto.
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C’è poi chi mi propone questo gioco: immaginare adesso Fausto Coppi, vecchietto in buona salute che ha compiuto gli ottantasei anni. Come sarebbe? Cosa sarebbe di lui? Come lo useremmo? O come lo ignoreremmo? Cosa direbbe, nel bene e nel male, al ciclismo? E al nostro sport? E a noi? E a se stesso? Mica facile rispondere, anche giocando forte di fantasia. Dei suoi due figli, Marina fa vini, Faustino coltiva una certa vocazione nella ristorazione: cosa c’entrerebbe il vecchio papà, che pure a suo tempo aveva acquistato un gran bel vigneto, anzi una tenuta agricola vera e propria? Farebbe il patriarca oppure sarebbe una edizione ancora più ringhiosa e tenera e patetica di Bartali eterno malcontento?
Naturalmente qui interessa il Coppi nel ciclismo, per il ciclismo? Lo faremmo presidente onorario della federazione? Come se lo spupazzerebbe la bieca televisione? Francamente non abbiamo nessuna risposta, neanche approssimativa.
Ma soprattutto non avremmo, non abbiamo la risposta al quesito che vale anche se Coppi non c’è più. E cioè: saremmo in grado, con lui vivo e dunque con meno mito a disposizione, di capire e soprattutto di far capire compiutamente cosa ha significato uno come Fausto per l’Italia della ricostruzione, della rinascita, l’Italia col fondale della macerie? La sua dimensione storica godrebbe della sua presenza viva, o ne patirebbe non potendo lui essere, in fondo, niente altro che un vecchietto, e come tale apparire?
L’altro giorno una emittente televisiva ha mandato in onda lo scherzo degli scherzi, in Belgio: far credere che il paese si fosse spezzato, da una parte i fiamminghi dall’altra i valloni, come è nella realtà di tante cose di ogni giorno, da quelle parti, e nei desideri di molti: ci hanno creduto in tanti. Per tornare a Eddy Merckx ed a quelli che qui riescono a non sapere cosa, chi lui sta stato, facciamo presente che è stato pur un elemento di aggregazione fra il Belgio fiammingo e quello francofono, lui della periferia di Bruxelles, zona fiamminga però con moglie della zona francofona e con matrimonio in chiesa nella lingua di Molière. Ecco, sicuramente quando quello scherzo duro è stato mandato in onda molti belgi hanno pensato a Eddy Merckx, o meglio hanno pensato a cosa lui poteva pensarne. Là Merckx è ancora “fresco”. In Italia Bartali è appassito, Coppi idem, anche se il primo forse evitò una guerra civile e il secondo fu il nostro massimo ambasciatore all’estero nel dopoguerra.
Ma mi inquieto troppo, gioco con i confini, sono poco europeo. A proposito: se dico a qualcuno che ai miei tempi si disputò anche un Giro d’Europa in bicicletta, mi obietta che sono matto. Eppure…
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Riflessione strettamente personale: ormai mi sembra di coltivare certi pensieri a livello di setta, di congregazione, di religione per pochi, di dogmi archeologici. Mi riferisco ai miei tempi e uso il plurale di tempo, ma magari certi capiscono “ai miei tempi”, plurale di tempio. Forse dovrei riferirmi “ai miei templi”, o “ai miei tempii”.
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