Quando eravamo ragazzi, di questi tempi, a scuole finite, vivevamo di cuore, di grande amore, il Giro della Svizzera: eravamo tifosi faziosi di Pasquale Fornara, fedeli come i carabinieri, e su quelle strade lo avremmo seguito, e sulle pagine del Corriere dello Sport, perché a quei tempi la Gazzetta era merce rara al Sud, anche quando cominciava a perdere le ruote alle prime salite, a fine anni ’50, lui che Giri della Svizzera ne aveva collezionati quattro, un record assoluto...
Ci chiediamo oggi quanti adolescenti abbiamo seguito con una ’vrenzola dei nostri sentimenti (certamente eccessivi, quelli, o di chi ha credito di affetto...) il Giro della Svizzera, sui giornali o semmai sui siti web, e si siano appassionati a Koldo Gil, a Contador, semmai a Bennati, se non ad Ullrich, se vi abbiano trovato motivi di emozione personale. E da questa valutazione, che nasce certo da un input personale, vogliamo dedurre una considerazione assoluta, che proponiamo alla vostra riflessione di appassionati di ciclismo.
Oggi siamo tutti a vedere il Tour, in palpitante e plausibile richiesta di un Ivan Basso al comando, così come siamo stati due mesi fa avvinti al Giro d’Italia, ma è possibile che un ciclismo professionistico debba essere oggi ed ormai così individuato - e limitato - ai suoi Grandi Eventi? È possibile che il ciclismo, e questo ancor prima della rivoluzione ProTour, meriti spazio, solleciti attenzione, soltanto quando trainato da - o traini esso stesso - un circuito mediatico di eccellenza unanimemente riconosciuta?
Il Giro, il Tour, un paio di classiche retoriche al Nord, il Mondiale per punto esclamativo, la Sanremo per devozione ed il Lombardia per la malinconia, ed è tutto qui, di un anno, il presente, e il futuro, del ciclismo maggiore? Le altre corse, ripensiamo allo stesso Giro della Svizzera, non vivono ormai più di luce propria, vivono solo in funzione di preparazione, di ancelle... Il Romandia per il Giro, e sia pure, ma non che Ullrich, alla fine anche vittorioso, il suo Giro della Svizzera, il numero 70 di una storia che verosimilmente Jan non conosce, lo corra solo «per affinare la gamba per il Tour»
E allora, perché non provare a ragionare su questo argomento e a proporci delle alternative, prima che il ciclismo, e l’attenzione su di esso, si riduca ad una luce intermittente, come quella psichedelica del tennis o dell’automobilismo?
In Italia, ad esempio, perchè non provare ad istituire un circuito di corse in linea, in chiave regionale, con una classifica finale a punti?
Il Giro di Romagna, il Giro di Toscana, il Giro del Veneto, il Giro del Lazio, con a ruota, su input federale, e semmai a turnazione, il Giro dell’Umbria, il Giro delle Marche, un giro per le grandi isole, un Giro della Campania, un giro per le regioni del Sud, mai come in questa stagione così lontane dal ciclismo professionistico, eppur così desiderose di veder passare una bicicletta...
Una idea che sostenga il concetto «regionale» non in chiave banalmente municipale, ma proprio per attingere ad un ruolo partecipativo e promozionale, co-sponsor, delle Regioni.
Sarebbe un modo non cervellotico di accendere un interesse, se non proprio una passione nazionale, paese per paese, città per città, privilegiando quei luoghi che semmai il ciclismo non lo hanno visto da decenni, se non in televisione. Ed un modo ancora, e la Federazione certo deve essere sensibile a questa esigenza di incentivazione popolare, per rinsaldare un feeling dei ciclisti italiani con il proprio territorio.
Quel rapporto di sentimento troppo spesso ferito, che in specie per i ragazzi del Sud che fanno ciclismo, dilania di solitudine e straniamento i cuori e la mente.
Gian Paolo Porreca, napoletano,
docente universitario di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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