Non ho fatto in tempo, a far leggere a mio padre quello che avevo scritto, su tuttoBICI e su Il Mattino, il quotidiano della mia città, sui sessanta anni di Merckx. Mio padre, ormai, e da qualche tempo sempre più veloce, non legge più i giornali che compra... O che mia madre gli manda a comprare, per dargli qualche
incombenza quotidiana, nel suo irreversibile letargo.
Ma a lui, che mi ha fatto respirare senza colpe il ciclismo, o un ciclismo senza colpe, vorrei dedicare questa riflessione mensile.
Alui: e ad un ciclismo inteso nel nome emblematico del padre, che sento così urgente in questi giorni di luglio, in attesa del Tour.
Oggi che non c’è più il mio e nostro “Tourmalet”, una rampa vicino alla casa di Carano, che hanno spianato di asfalto. E non potrò ricordargli di quando mi ingobbivo su quella bicicletta rossa - la mia prima - con le canne da donna, sulla quale però correvo come un ometto. O di un triciclo, peggio ancora, sul quale mi consentì di fare qualche decina di metri, buio fondo e le lucciole, su un infinito rettilineo di strada di campagna, quell’anno, quella sera che l’ultimo treno da Napoli perse la coincidenza con la corriera del paese. O di quella Bianchi‚ da corsa, che volle farmi attrezzare, con tanto di cambio e borraccia di latta, mica solo con il manubrio a corna di bue, come un ciclistino. (E che non era mai pronta, da quel modesto artigiano di paese: quanti appuntamenti rinviati, con la gloria). E la mia paura che potessero rubarmela, quei ragazzi di campagna che me la guardavano soltanto, invidiosi: o semplicemente ammirati. E lo sguardo di mio padre, fiero, che quella minaccia fittizia sapeva scacciare via con un gesto di mano: come l’insidia di un insetto domestico.
E non potrò raccontargli più di quelle riunioni “tipo pista”, per festeggiare la Festa del Lavoro, che si svolgevano a Napoli, sul lungomare di via Caracciolo. Di Sacchi e Plattner, Faggin e Messina, Baldini e Derksen. Di Maspes ed Harris. Ho ancora l’immagine impressa, non l’anno, ma il gesto, di quando mi portò a cavalcioni sulle spalle, per farmi vedere l’esito di una rivincita - l’ennesima - fra Antonio Maspes e Reginald Harris. E semmai di quando venne a raccattarmi sul traguardo di Fiuggi, Giro d’Italia ’73, primo Tullio Rossi, la prima volta che seguì una corsa vera..
Il ciclismo, nel nome del padre, sarebbe stata poi la sua attesa del Giro, per potermi leggere. E semmai il dispiacere per una non felice posizione, o uno spazio ridotto, sul giornale. O semmai il rimbrotto per come la Rai seguisse - molto male - il ciclismo, qualche tempo fa. Il ciclismo, era avere quel lettore speciale, il primo, che avremmo avuto e che non avremo più.
Quello per cui scrivevamo meglio: o meno peggio. Raddoppiando sempre in speranza almeno.
Ed il ciclismo nel nome del padre, ci ritorna elemento diversamente struggente e cardinale. Il padre di Cipollini e il padre di Scotto d’Abusco, oggi in ambascia, quello con cui correvamo in bici sulle salite di Ischia. Il padre di Figueras ed il padre di Illiano. Il padre di Pantani. Il padre di uno Zoetemelk e di un Merckx. Il padre dei gemelli Ochoa. Il padre di D’Amore, che il ragazzino se lo portava al mozzo. Senza ricorrere alla tragedia dei Monserè, padre e figlio, scomparsi allo stesso modo.
Ma ritrovando una lezione umana univoca, al di là del dubbio di colpe che restano patrimonio ambiguo della nostra fallibilità, nella morte di Alessio Galletti, morto in bici a 37 anni. Per quel mal di cuore, uguale o diverso cosa conta più al di là dei nostri giorni, che aveva già portato via in età acerba suo padre Edo. A doppiare il Capo Horn del ciclismo.
(Ti sarebbe piaciuta questa conclusione, e tutta la morale che resta nascosta, papà).
Gian Paolo Porreca, napoletano,
docente universitario di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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