Don Zilli, grande direttore di Famiglia Cristiana, tramite il Giro d’Italia un giorno mi diede una lezione di giornalismo. Mi aveva chiesto come facevamo noi giornalisti a seguire la corsa ed io gli avevo detto della cosiddetta radio di bordo, che suppliva alle difficoltà di stare in contatto visivo con i pedalatori. Ma glielo avevo detto quasi con pudore: e non il pudore del giornalista che deve ammettere che sì, i ciclisti con i suoi occhi li vede pochissimo, ma il pudore di chi presentava come vitale per il suo lavoro uno strumento, la radio appunto, ormai vecchio e perfino banale.
Don Zilli mi aveva chiesto di scrivere un pezzo su questa radio, su cosa diceva, e su altre cosine del Giro d’Italia che io reputavo insignificanti, tanto è vero che gliele dicevo soltanto su richiesta, ma che per lui (e quindi per i lettori) erano fonte di interesse, di sorpresa. Per esempio l’allestimento della zona d’arrivo, con il grande lavoro di quei tipi che viaggiano di sera e anche di notte, partendo dopo aver smontato tutto, per andare a rimontare tutto a duecento chilometri di distanza. Per esempio il tipo di valigia che bisognava imparare a fare, per non portare nè troppa roba nè troppo poca ed anche per affrontare situazioni climatiche diverse, dal nord al sud e dal sud al nord.
Mi accorsi proprio in quella occasione che avevo finito di stupirmi e che, perciò, come giornalista diventavo poco affidabile, perché chi non si stupisce non sa stupire. E da allora imparai a mettere negli articoli anche le piccole cose: per esempio la presenza, sul posto di lavoro nei grandi stadi, di televisori che permettono il rilevamento del particolare, lo studio del replay, del ralenti (ci sono colleghi che mi hanno rimproverato, temono che se la cosa viene risaputa i giornali non ci mandano più in giro, trovando molto più economico farci seguire la televisione dall’ufficio).
Penso di avere lavorato e agito onestamente, segnalando il televisore e non solo. Ma devo tanto altro a Don Zilli: compreso il fatto che mi ha permesso di battere quello che è forse un record mondiale: perché mi ha chiamato a collaborare con il suo settimanale trentacinque anni fa, e andandosene da questo mondo deve aver lasciato detto che mi tenessero ancora.
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Devo farlo: un giorno o l’altro andrò a ripescare la copia del giornale con quel mio articoletto che si intitolava «Mamma tivù dacci di più» ed era stato scritto dopo la prima grande telediretta su una nostra corsa, la Milano-Sanremo. Ricordo che colleghi importanti mi avevano quasi tolto il saluto, dicendomi che ero pazzo, che collaboravo con il nemico, che la televisione ci avrebbe tolto il pane. Nessuno era arrivato al sublime di Mottola che, da caporedattore del «Corriere della Sera», aveva detto a proposito di quella trasmissione televisiva di cui tutti parlavano, «Lascia o raddoppia?», che bisognava ignorarla sul giornale, «così dopo pochi giorni non se ne parla più», nessuno ci era arrivato ma forse soltanto per amicizia verso di me e rispetto della follia.
Non si sa ancora bene quale sia il rapporto fra la televisione e lo sport e fra la stampa televisiva e la stampa scritta e dunque possono ancora avere ragione gli apocalittici che mi accusavano di mancata difesa di posizioni sacre. Dunque propongono quell’articoletto alla storia, ma solo a quella dei soprannomi: penso, credo, temo di essere stato l’inventore dell’appellativo «mamma tivù». Consegno l’ipotesi di mio primato ai miei posteri, che sono poi i miei tre figli: perché vadano orgogliosi del loro padre, e almeno un po’ gli perdonino la vita zingara.
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Ogni tanto mi chiedono cosa ci vuole per fare il giornalista: pensano a scuole, lauree, trafile. Io penso ai servizi sul ciclismo, dietro ai ciclisti, e dico: il fisico. Ma mi accorgo che a nessuno la mia risposta mette in mente l’idea della fatica. Invece i miei interlocutori quando sentono la parola «fisico» pensano alla bellezza, visto che si va o si tende ad andare in televisione, o a un diploma dell’ISEF, o a uno zio importante che faccia lo scienziato e possa raccomandarti.
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Ho amici anziani che si danno al cicloturismo, e credendomi competente mi dicono quanto spendono per assemblare pezzi pregiati, per farsi la bicicletta superspeciale, per inseguire le ultimissime novità. Alla fine la cifra è altissima, specie per uno come me che è soddisfattissimo di un trabiccolo comprato a 90.000 lire, quattro anni fa, in un supermercato francese (marca Takamura, se interessa).
Il costo di certe bici mi fa venire in mente una frase di quel campione che è Fiorenzo Magni, al primo grande lievitare dei prezzi delle biciclette: «Io, dopo aver smesso di pedalare, sono diventato venditore d’automobili, e per ogni auto che mi compravano davo in regalo una bicicletta. Penso che nel futuro chi venderà bici darà in premio un’auto ad ogni compratore».
Gian Paolo Ormezzano,
60 anni, torinese-torinista,
articolista de “La Stampa”
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