Daniele Masala è stato campione olimpico e mondiale di pentathlon moderno, ora segue lo sport per la polizia, istruttore e coordinatore. Lo conosco da anni, ci incontriamo ogni tanto a dibattiti, convegni, manifestazioni. L’ho visto ad Atlanta, era il giorno del successo nella mountain-bike di Paola Pezzo. Mi ha colpito una sua frase che contiene un giudizio, una previsione, un timore: «Le Olimpiadi stanno concedendo troppo di se stesse alla televisione, stanno diventando ormai simili a giochi senza frontiere».
Per prima cosa ho pensato e temuto che le sue parole si riferissero anche all’appena conclusa gara vittoriosa dell’azzurra. Poi lui ha precisato, facendo omaggio al ciclismo che corre poco quel rischio di fronte ad altri sport avviati alla completa prostituzione nel nome della spettacolarizzazione, anzi della superspettacolarizzazione.
Il ciclismo ad Atlanta ha dovuto anch’esso frequentare un po’ di spettacolarizzazione: si pensi alla prova a cronometro, su un circuito dove i corridori son partiti a gruppi, perché tutti insieme in quel carosello non potevano stare, ci sarebbero state frequentissime irregolari vicende di scie e di sorpassi.
La spettacolarizzazione potrebbe ad un certo punto diventare anche per il ciclismo una imposizione, da parte del Cio, o perché no direttamente della televisione, ormai vera padrona dell’Olimpiade. Le gare su pista sarebbero le prime ad essere interessate: e già la spettacolarizzazione potrebbe essere stata la chiave di accesso alle Olimpiadi della prova individuale a punti, preludio magari di una prova su strada in circuito molto breve, tutta sotto l’occhio delle telecamere (un po’ quello che accadde, involontariamente, a Mosca 1980, dove il circuito era, come dire?, in anticipo sui tempi, tutto compresso in pochi chilometri quadrati esplorabilissimi e intanto contenibilissimi dalle telecamere).
La spettacolarizzazione è anche comodità di ripresa per la televisione. Da questo punto di vista il ventilato avvento del biliardo nel programma olimpico non è una boutade. Il gioco si presta moltissimo ad essere esplorato dalla televisione, e con spesa minima di installazioni: si pensi a quel che costa seguire con le telecamere una gara di ciclismo su strada, a cosa costa seguire una partita di biliardo.
Il ciclismo già sta all’Olimpiade in posizione ibrida, voluto e non voluto, costretto in fondo all’open, relegato in velodromi d’emergenza, di solito lontani dai posti dove più e meglio batte il cuore dei Giochi. È insomma uno di quegli sport che il Cio ama poco, perché ha i suoi sponsor speciali ed estranei al mondo olimpico, anche se adesso la Mtb ha aperto un panorama commerciale interessantissimo. La spettacolarizzazione potrebbe diventare un obbligo: magari con in pista sprint di tre o più concorrenti, con l’inseguimento vivacizzato da suoni speciali, da giochi di luce, con il ritorno del tandem o l’ingresso delle prove dietro motori. E con la strada costretta a percorsi sempre più miniaturizzati, e magari, con la mountain-bike in un palasport, come il trial.
A questo punto il ciclismo potrebbe trovarsi di fronte alla decisione, alla scelta: dentro i Giochi Olimpici, a costo di frequentare gare che ricordano quelle televisive di giochi senza frontiere, o fuori, con la sua vita solita, collaudata, classica, un po’ da antiquariato. Una scelta esistenziale, e probabilmente drammatica, o quanto meno dolorosa: quale che essa sia.
Detto questo a proposito dello sport beneamato, allarghiamoci alla considerazione della frase di Masala. Molto di giochi senza frontiere è già entrato nei Giochi, sia per come le gare sono in realtà, sia soprattutto per come vengono proposte in televisione. La scherma ad esempio è ancora riuscita a difendere le sue classiche divise bianche, ma ha dovuto accettare una piattaforma altissima e il vero spettacolo ad Atlanta era sovente costituito dalle avventure equilibristiche dei concorrenti. Il pugilato è diventato tutto un affare di suoni, luci, punti, calcoli e manco ci si accorge se i due si scambiano anche dei pugni. Il nuoto è sempre più ripreso da sott’acqua. L’atletica si difende nel restare se stessa, la televisione ci va piano a violentarla, ma ormai il lavoro dei muscoli facciali di un velocista conta, spettacolrmente parlando, più di quello dei muscoli delle gambe. E poi se si vuole è un’adesione, magari inconscia, magari non programmata, alla spettacolarizzazione tutto quello scosciarsi di atletesse dentro body ormai più parlanti della pelle nuda.
Non si sa bene dove si andrà a finire: ma intanto c’è una specie di rifiuto di capire dove si è già finiti. L’allarme, un allarme, ancora non c’è. E non è neppure detto che debba essere dato. In fondo i giochi senza frontiere piacciono, e la terminologia sportiva viene ad essi applicata disinvoltamente. Un giorno avremo ai Giochi il gioco della rottura delle pentole, e manco ci saremo accorti dell’...evoluzione. In fondo il nuoto sincronizzato ai Giochi estivi e lo sci acrobatico in quelli invernali sono spettacolo, gioco, coreografia, circo, giochi senza frontiere più che sport. Un giorno arriveranno su un palcoscenico olimpico giocatori di ciclopalla, equilibristi cinesi, giocolieri indiani, e disputeranno le loro gare e li applaudiremo come i maratoneti, anzi di più perché della maratona si riesce a vedere, a seguire pochissimo, mentre loro sono totalmente lì, belli croccanti sul teleschermo con tutte le mossette.
Gian Paolo Ormezzano, 60 anni, torinese-torinista, articolista de
“La Stampa”
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