Grandi discussioni sulla collocazione del Giro d’Italia nel calendario ciclistico, ed incapacità personale di esentarci dal dire la nostra. Cerchiamo almeno di essere personali anche nell’interpretazione della situazione, e lo facciamo cominciando col dire che il Giro d’Italia è un valore assoluto, e dunque non deve commisurarsi, confrontarsi, eventualmente battersi con il Tour o con la Vuelta (anche perché nel primo caso il confronto sarebbe perso in partenza, nel secondo conterrebbe il rischio di una sconfitta che per ora possiamo anche pensare estranea alla realtà della situazione). Il Giro d’Italia deve risolvere il problema per sue linee interne, senza cercare cambi di posto o, almeno per i prossimi anni, di ruolo. Il Tour è il Tour, amen, e la Vuelta ha rischiato settembre ed ha vinto la sua scommessa.
Comunque un Giro che ad esempio chiedesse di sostituirsi alla Vuelta nella posizione in calendario sarebbe un Giro che si autocastra, ammettendo di avere bisogno di luce esterna, ora addirittura appaltata ad altri, e dunque di non avere sufficiente luce sua da sprigionare. Ma allora? Ma allora il Giro deve secondo noi giocare una carta molto audace, quella dell’anticipo in calendario, per mettersi così lontano dal Tour da potersi proporre sia come corsa ideale per chi poi voglia fare il Tour stesso (il che, comunque, costituisce una limitazione, bisogna dirlo), sia come occasione praticabile di tentare i due grandi successi nello stesso anno, alla Coppi, alla Anquetil, alla Merckx, alla Hinault, alla Roche, e alla Indurain e basta. Il Giro dunque appena finite le corse classiche, davvero sullo slancio: una inversione interessante di abitudini, visto che di solito sono le corse a tappe a lanciare i corridori verso le corse in linea, con la sublimazione, se si vuole chiamarla così, di una Vuelta per preparare il campionato del mondo. Il Giro anticipato di una quindicina di giorni rispetto alle date attuali.
Obiezione: questo Giro di fine aprile-metà maggio non potrebbe andare sulle grandi montagne, per persistenza o comunque pericoli di neve. Verissimo. Ma a parte il fatto che se al Giro non c’è partecipazione illustre queste grandi montagne sono automaticamente «appiattite» dal cattivo uso che si fa di esse, è possibile trovare montagne valide, interessanti, severe in posti d’Italia senza pericolo di neve, cioè nell’Italia del Sud. Questa potrebbe essere la grande novità, e del ciclismo internazionale intero, non soltanto del ciclismo del Giro. Il Sud è da sempre penalizzato dagli itinerari del Giro, forse un inizio di equilibratura sarebbe consono all’idea, tornata «di moda», dell’Italia unita. E sarebbe facile richiamare forti interessi governativi per un Giro così, in tempi in cui c’è chi parla di secessione. Un Giro nuovo, moderno anzi postmoderno. Il Nord potrebbe sempre avere grosse tappe, magari a cronometro, magari su salite sicure.
V va da sè che l’idea di un Giro per squadre nazionali, anticipando il Tour che già era stato anticipato dal Giro nella formula per squadre di marca, sarebbe non un ritorno all’antico, ma un viaggio nel postmoderno: e l’esperimento sicuramente avrebbe una grande importanza anche morale, per popolazioni alle quali in questi tempi qualcuno vuole imporre un’Italia più piccola, un’Italia in cui la zona ricca si separa, si mette per conto suo, prendendo un altro nome. In fondo nessun medico ha ordinato di cercare sempre lo Stelvio e il Gavia, magari con il risultato di cambiare itinerario all’ultimo, per neve residua o sopravveniente. In ogni caso, sarebbe una affermazione di forza assoluta, tutta sua, da parte del Giro d’Italia. Un’affermazione di indipendenza, anche. E una forte bella proposta di novità nell’italianità. Il Sud sarebbe entusiasta e si metterebbe al servizio della corsa, con le sue installazioni alberghiere, le sue proposte turistiche, in quel tempo dell’anno già valide anche per un vasto turismo straniero. D’altronde il nostro ciclismo ha bisogno ormai del Sud, anche per il reperimento di forze atletiche. Non vi dicono nulla i nomi di Sgambelluri, di Figueras? E adesso aspettiamo che ci dicano che la nostra proposta è assurda, è di realizzazione impossibile, è suicida. Magari ce lo diranno gli stessi che, quando fu loro proposto di spostare il Giro a settembre, dissero sdegnati di no, e pronosticarono alla Vuelta settembrina una fine rapida e dolorosa.
Leggendo tante belle cose - che condividiamo, e che in alcuni casi noi stessi scriviamo - su Cesare Maldini, nuovo commissario tecnico del calcio azzurro, ci viene in mente che un personaggio così, presentato nella sua forza tranquilla, nella sua saggezza serena, nella sua calma esemplare, è una grossa novità nel mondo del calcio, che evidentemente è di memoria corta, visto che basta andare un po’ indietro, «saltare» cioè Arrigo Sacchi, troppo nuovo per essere umile, e ci sono Azeglio Vicini e Enzo Bearzot della stessa pasta di Cesare Maldini. Poi ci viene in mente un’altra cosa. Che noi del ciclismo abbiamo, e da tempo, un altro Maldini, e che però l’unico difetto (difetto?) è che questa è per noi una sorta di norma, e di lunga norma, così che manco ci accorgiamo del tesoro d’uomo che abbiamo. Chiaro che stiamo parlando del commissario tecnico Alfredo Martini.
Gian Paolo Ormezzano, 61 anni, torinese-torinista, articolista di “Tuttosport”
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