ARRIVA IL TOUR, MA IL GIRO...

TUTTOBICI | 29/06/2016 | 07:27
Manca pochissimo al Tour, ma restiamo ancora per un attimo in clima Giro, con alcune riflessioni in ordine sparso, che spero possano essere per tutti gli amici di tuttoBICI motivo di discussione. Cosa ci ha insegnato questa 99a edizione del Giro d’Italia? Che i vecchi adagi «la corsa la fanno i corridori» e «il Giro finisce al traguardo, al termine delle tre settimane» vivono e lottano ancora insieme a noi. Non fanno solo parte della retorica e della letteratura ciclistica: se hai corridori come Nibali, certe cose possono ancora accadere. In verità, in questo caso, oltre ad un superlativo e mai domo siciliano, abbiamo avuto fino alla fine corridori che non hanno mai scelto di fare melina, come io per primo pensavo potesse accadere. Ma il vero elemento destabilizzante, l’uomo in più è stato senza ombra di dubbio Vincenzo, sono stati i suoi compagni di squadra e i suoi tecnici, ad incominciare da quel Beppe Martinelli che ha un difetto insopportabile: non ci sta mai a perdere. Per questo osa a tal punto da rischiare anche di fare la figura del pollo. Ma in ogni impresa che si rispetti - se di impresa si parla - ci sono sempre dietro e dentro follia e incoscienza. Noi parliamo ancora oggi della Cuneo-Pinerolo: la madre di tutte le tappe. La summa di tutte le imprese. Ma quel giorno Coppi Fausto fece una cosa che se non fosse andata a buon fine gli sarebbe valsa la patente di “pirla”, per dirla alla milanese. Invece rischiò, si caricò tutto sulla propria schiena e fece qualcosa che ancora oggi viene rammentata come unità di misura irraggiungibile, per spiegare come archetipo magnum qualcosa di eccezionale e unico.

GRAZIE MAURO. Oltre a Nibali, Mauro Vegni. La corsa la fanno i corridori, ma il buon oste - oggi dovremmo dire chef per tirarcela un po’ è stare al passo con i tempi - ha il dovere di imbandire una buona tavola e preparare anche un menù all’altezza. Ecco, il buon organizzatore - e Mauro Vegni lo è - deve mettere nel proprio menù tutto quello che è necessario per far sì che la corsa sia spettacolare, aperta e possibilmente incerta fino alla fine. Che alla fine produca un vincitore completo, capace di districarsi su tutti i terreni. Pensate al Giro del Centenario: quell’anno non c’erano le Dolomiti, sono state tagliate le montagne. Certo, il tappone era quello del Monte Catria, con quasi 5.000 metri di dislivello, ma in quel Giro mancava un aspetto fondamentale che varia la corsa e la fisiologia di qualsiasi atleta: l’altitudine. Il pedalare ad oltre 2.500 metri di quota per ore. Magari anche per un paio di giorni, non è la stessa cosa che farlo a 1.700 metri. Se Vegni avesse disegnato un Giro così, Nibali probabilmente non l’avrebbe mai vinto.

TRE SETTIMANE. Questo Giro ci ha anche detto che le tre settimane sono fondamentali e insostituibili. E siccome c’è qualche “illuminato” che di tanto in tanto pensa di portare i Grandi Giri a due settimane, lo invitiamo ad abbandonare questo concetto folle, che saprà anche di modernità e sviluppo, che farà anche sentire molto intelligenti e cool quelli che lo pensano, ma va contro ogni logica di sport di resistenza. È come se io scrivessi che la Maratona deve essere accorciata. Basta  con i 42 chilometri e 195 metri, facciamola di 25 e la chiudiamo lì. Se facciamo maratone meno logoranti, ne possiamo fare di più durante l’anno. Sì, certo, come no. In questo modo però uccideremmo l’epica, l’impresa e la storia. Produrremmo dei surrogati di campioni, e difficilmente ci appassioneremmo per corridori e maratoneti che fanno cose che potremmo tranquillamente fare anche noi. Scriveva Gianbattista Marino: «È del poeta il fin la meraviglia: parlo dell’eccellente e non del goffo: chi non sa far stupir, vada alla striglia!». E quanta meraviglia e stupor ci ha regalato Vincenzo in questo Giro?

W L’ITALIA. Si è anche detto e scritto: tolti Nibali e Aru, non abbiamo più nulla. Il ciclismo italiano è povero, arido e avaro di campioni. Non sono assolutamente d’accordo. O meglio, è vero che non ne abbiamo una quantità enorme, ma il fatto stesso di avere Nibali e Aru ci dovrebbe mettere al riparo da cali di autostima. Se ci lamentiamo noi, cosa dovrebbero dire altre nazioni che non hanno niente o molto poco? Oggi, rispetto a ieri, il ciclismo è davvero mondializzato, viviamo una polverizzazione di talenti assoluta. Forse c’è solo la Colombia che ha davvero una scuola invidiabile capeggiata da Nairo Quintana. Forse c’è la Germania, con qualche ottimo velocista, per il resto siamo lì, anzi magari noi stiamo molto meglio di altri, proprio perché abbiamo Nibali che può ancora garantirci tre/quattro anni di grande ciclismo e Aru, che ha davanti a sé almeno una decina di stagioni ad alto livello. E poi all’orizzonte ci sono corridori come Moscon e Ganna, che mostrano già di avere un colpo di pedale da predestinati. Insomma, questo Giro ci ha detto che non ci dobbiamo tanto guardare in Giro: godiamoci quello che abbiamo. È già molto.

Pier Augusto Stagi, editoriale da tuttoBICI di giugno
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COMMENTI
ARU e NIBALI
29 giugno 2016 11:33 fulvio54
A proposito di Aru e Nibali fossi nei panni dei vertici Astana farei partire Nibali capitano e Aru battitore libero. Proviamo ad immaginare una eventuale vittoria di Nibali accoppiata Giro - Tour come i leggendari Merckx, Hinault, Indurain, Anquetil e piu' indietro nel tempo Fausto Coppi. Sarebbe qualcosa di straordinario nel ciclismo esasperato di oggi. Il buon Aru ha tutto il tempo per provarci piu' avanti al suo primo Tour mi pare azzardato...comunque in bocca al lupo ai pochi italiani che saranno alla partenza nell'edizione 2016.

e pantani?
29 giugno 2016 12:27 mcipo
Caro Fulvio 54 mi dimentichi proprio il pirata?????

PANTANI
29 giugno 2016 15:11 fulvio54
Caro "mcipo" hai ragione nella fretta di scrivere ho dimenticato il nostro grande indimenticabile Marco Pantani. 1998 altra doppietta chiedo venia.

Per chi è questo articolo?
29 giugno 2016 17:18 spaccabici
scrivo per esprimere le mie perplessità riguardo ad un articolo che sembra nato da rancori personali di chi lo ha scritto. Premetto che il Giro d'Italia per me è in assoluto la corsa a tappe più straordinaria che esista. Il tour sarà pure più ambito, ma il Giro è su un altro pianeta, non c'è storia. Detto questo però non mi trovo d'accordo con quasi nulla di quello che ho letto. Innanzitutto, come già ho scritto in altri post, la vittoria di Nibali per me non è stata un'impresa. Come già lui stesso aveva detto ben prima del giro, la sua preparazione era mirata ad essere al top nella terza settimana. Durante le prime due settimane ha sofferto e perso molto. Poi ha recuperato. Il fatto che il Giro sia stato incerto fino all'ultimo lo ha reso sicuramente spettacolare, emozionante e magico, ma non ha certo reso le azioni di Nibali delle imprese. Per spiegarmi meglio, la Cuneo Pinerolo è stata un'impresa. A Sant'Anna Nibali ne aveva più degli altri. Punto e stop. Merito tutto suo, bravissimo e coraggioso. Ma le imprese sono un'altra cosa. Se Sant'Anna è stata un'impresa allora Froome a la Pierre Saint Martin ha compiuto un miracolo, rifilando minuti a tutti su una salita cosi poco rilevante dal punto di vista altimetrico. Penso siate tutti d'accordo con me nel dire che neanche quella è stata un'impresa. Le imprese sono gesti folli che superano gli episodi. Il grosso del distacco Nibali lo ha recuperato per la caduta di Kruiswijk e la crisi di Chavez, che l'ultimo giorno ha addirittura perso la ruota di Uran. Ma il bello del ciclismo è che non si vince solo con le imprese, per cui bravo Nibali! Mi ha fatto emozionare anche senza essere spaziale, e anzi forse l'emozione è esplosa proprio perché in questo giro NON è stato straordinario.
Quello che non capisco è questo bisogno di "storicizzare" le vittorie. Quello che non capisco è questa perdita di lucidità che porta a sproloqui francamente inascoltabili. Tappe in cui si pedala, cito testualmente, "per ore sopra i 2500 metri" non esistono in Italia, dal momento che solo 3 passi superano quella quota. Il fatto che le tappe si accorcino e i giri siano un po' meno duri del passato è proprio ciò che ultimamente li rende più spettacolari. In un ciclismo più pulito se vogliamo evitare di vedere scatti solo all'ultimo chilometro, questa pare la scelta più sensata. Ma chi ha scritto l'articolo non era a lucido. Ringrazia Vegni per quello che NON ha fatto (ovvero un giro durissimo) e taccia di idiozia chi propone quello che Vegni HA fatto (ovvero un giro con meno chilometri e meno dislivello). Per questo mi viene da chiedermi se questo articolo così impreciso e "sbracato" non sia la risposta stizzita a qualcuno che con le sue chiacchiere da bar abbia infastidito Stagi. Mi piacerebbe si parlasse meglio di ciclismo, e non tanto dei gusti di chi scrive.

Giustissimo l'esempio della maratona
29 giugno 2016 23:33 pickett
Per una volta sono d'accordo con Stagi;ma il discorso non vale solo per le corse a tappe;tutte le grandi classiche,e in particolare i Mondali, dovrebbero tornare ai chilometraggi di un tempo,attorno ai 280 km.Non esiste nessun motivo logico per giustificare i chilometraggi ridicoli di questi ultimi vent'anni.Il Lombardia lungo 230 km è una vergogna!

Caro spaccabici
30 giugno 2016 11:15 foxmulder
Ho letto con molta attenzione il suo intervento. Arrivo anche a condividerlo, per alcuni versi, ma, relativamente al (cito) "bisogno di storicizzare le imprese", mi chiedo: di che cosa dovrebbe scrivere un giornalista? Se Stagi la vede così come l'ha scritta, e le i non la condivide, fa bene a scriverlo e a "cambiare canale". Cionondimeno Stagi, che non sempre condivido, ma che in questo caso non mi pare abbia scritto una bruttura, è nella sacrosanta posizione di spiegarci come la vede. La dietrologia è stucchevole quanto il cattivo scrivere...

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