DE MARCHI, IL ROSSO D'ITALIA

TUTTOBICI | 26/10/2014 | 07:00
Si è affermato come il Rosso di Buja, ma abbiamo voluto ribattezzarlo il Rosso d’Ita­lia. Alessandro De Marchi è stato il migliore azzurro al campionato del Mondo di Ponferrada per come ha affrontato la corsa, per quanta passione e abnegazione ha messo per il raggiungimento dell’obiettivo, che è stato solo sfiorato.
Rosso come la Ferrari, rosso come la Ducati, rosso come l’Alfa Romeo: colore nazionale dei motori. Rosso come il sangue dei caduti, rosso come uno dei tre colori della nostra bandiera che vuole tornare sul tetto del mondo ciclistico da cui manca da sei anni, quando Alessandro Ballan vestì l’iride a Varese 2008.
Corridore super combattivo dell’edizione 101 del Tour de France, premiato con il numero rosso (neanche a farlo apposta), vincitore di tappa ad Al­caudete nella Vuelta a España, la corsa rossa per eccellenza, protagonista della sfida iridata e, siamo pronti a scommetterci, lo sarà al Lombardia, classica con cui chiuderà la sua stagione migliore in assoluto. Alessandro lascerà la maglia verde della Cannondale per cambiare pelle come un camaleonte, il suo animale preferito, e vestirsi di rosso (guarda un po’) e nero, dall’anno prossimo lo vedremo infatti con la maglia della BMC. Si sta affermando nell’elite del ciclismo, definirlo un semplice attaccante o un gregario inizia ad essere riduttivo, e pensare che per trovare uno straccio di contratto ha dovuto fare i salti mortali. Non lo voleva nessuno. Non è un eufemismo.
«Se sono arrivato dove sono lo devo a tante persone, ma a una in particolare. È Roberto Bressan, presidente del Team Friuli, la squadra in cui sono cresciuto da dilettante. Se non ci fosse stato lui io mi sarei perso. Mi ha dato metodo. È grazie a lui che ho scoperto la pista: una disciplina che mi ha permesso di farmi notare e accrescere la mia autostima. Poi, sempre grazie a lui, sono arrivato alla Androni di Gianni Savio».
Alessandro De Marchi ha un fratello minore che si chiama Francesco, ma è come se ne avesse un altro, più grande, che rappresenta il suo punto di riferimento. Roberto Bressan è come un fratello maggiore per il Rosso di Buja a cui deve il salto di qualità nelle categorie minori e l’approdo nella massima categoria dopo ben sei anni tra i dilettanti.
Bressan, 54 anni friulano di Udine, è stato professionista dal 1982 al 1985, due anni con l’Atala e una stagione rispettivamente con la Murella Rossin e la Santini Krups, dopodiché si è impegnato per far crescere, pedalando, i giovani della sua zona tra i quali ha scovato il Rosso di Buja, pardon d’Italia.
«Ho corso nella massima categoria dai 21 ai 25 anni, ho partecipato al Giro dell’84 vinto da Moser e al Tour de France ‘85 vinto da Hinault, una corsa davvero “dura impestata”. La mia avventura tra i pro’ non è durata a lungo per problemi fisici, all’ultimo anno ho contratto l’epatite alla Grande Boucle e ho dovuto alzare bandiera bianca. All’epoca l’alimentazione non era controllata come oggi... Il ciclismo è una scuola di vita incredibile, ti allena a soffrire, ti prepara al futuro, a me ha insegnato tutto».
Discreto e modesto com’è Bres­san non lo direbbe mai ma, lo dice Alessandro, è stato lo sco­pritore di questo ragazzo alto e magro dai capelli rossi che nessuno voleva in squadra e che quest’anno ha dimostrato di meritarsi, eccome, una chance nel­la massima categoria.

Come possiamo definirti in relazione ad Alessandro?
«Guarda io non voglio apparire, sinceramente non vorrei neanche rispondere a queste domande perché non mi importa vantarmi di quello che sono stato e sono per lui. Lui lo sa e lo so io, mi basta questo».

Però se ti cita in ogni intervista significa che hai un ruolo importante per lui.
«Diciamo che ho visto in lui quello che non hanno visto gli altri. Ho creduto in lui quando non ci credeva nessuno. Ho lottato per lui e ne vado fiero».

Per quanto tempo Alessandro è stato tra le tue fila?
«Ho tentato di prenderlo al primo anno da dilettante perchè l’avevo già notato da junior. Mi aveva colpito la sua grande resistenza, era sempre in fuga, non si risparmiava mai. Era il primo anno che mi ero messo in proprio, lui scelse un’altra squadra così ho continuato a seguirlo da lontano buttandogli un occhio alle varie gare in cui ci incontravamo. Al suo secondo anno tra gli Under 23 ho iniziato a dargli qualche consiglio e lui ha iniziato ad ascoltarmi. Così è iniziato un rapporto di amicizia, per 4 anni ha corso alla Bibanese e io mi sono limitato a dargli qualche dritta, in primis quella di andare in pista, e, collaborando all’epoca con la nazionale, ho cercato di fargli fare qualche esperienza in maglia azzurra. Non lo allenavo, non sono mia entrato nei meccanismi della sua società, gli ho solo indicato la strada che doveva intraprendere e mi ha creduto. Passato Elite è venuto da me e per 2 anni ha difeso i colori del Cycling Team Friuli».

Cosa è successo tra il 2009 e il 2010?
«Abbiamo impostato la sua carriera attraverso un passaggio per me fondamentale: la pista. L’unica certezza che avevo era che doveva passare da lì per migliorare e così è stato. La svolta è avvenuta nel velodromo, in occasione di un Campionato Italiano. Abbiamo quasi rubato uno stage all’Androni perchè non c’era nè un procuratore nè una società che mi credeva. Non vinceva e tanti purtroppo si limitano ai soli risultati, ma dopo lunghe fughe lui riusciva comunque sempre a piazzarsi tra i primi. Questo volevo dire che era un corridore, non me l’ero immaginato in sogno. Il problema del nostro professionismo è proprio questo: passa chi vince 10 corse all’anno, non si tiene conto delle qualità».

Ha faticato parecchio per passare professionista.
«Moltissimo, ma oggi possiamo dire che ne è valsa la pena. Nella massima categoria all’Androni Venezuela prima e alla Cannondale poi è cresciuto mol­to, grazie al lavoro con il preparatore Cri­stiano Valoppi, che ha iniziato a seguirlo quando era tecnico delle Fiamme Azzurre e continua anche ora che si occupa della nazionale argentina. Quest’anno ha fatto quel salto di qualità che non ci aspettavamo neanche noi arrivasse così presto, pensavamo gli servisse un altro anno per maturare così tanto. Alessandro ha 28 anni, non è giovanissimo, ma nelle ultime stagioni ha fatto passi da gigante».

Che corridore può diventare?
«Il futuro è tutto suo. Per quanto ha dimostrato è giusto che parta come spalla di un capitano importante e sfrutti le giornate libere che gli vengono concesse. Non è ancora un leader che può assumersi la responsabilità della squadra, ma magari lo diventerà. Per qualcuno non sarà un vincente, ma se gli si concedono due giornate libere in un grande giro ha dimostrato che una tappa la vince. Al fianco di Nibali l’avrei visto bene perchè è un corridore di un’affidabilità micidiale. È serio, in tutti i sensi, non tradisce, non è un chiacchierone. La squadra che l’ha preso ha fatto un buon affare».

Che impressione hai avuto quando l’hai incontrato la prima volta?
«Ho subito pensato che avesse un ca­ratteraccio di prima categoria. Diciamo che al primo impatto ho capito che il carattere c’era. Spesso è scontroso, è molto permaloso e puntiglioso, ma è un ragazzo di cuore. Ce lo mette sempre al 100%. Come detto è serio e leale. Io gli avrò insegnato qualcosina, ma il merito è tutto di chi l’ha cresciuto: mamma Enrica e pa­pà Renzo. Or­mai lo conoscete anche voi, sapete com’è. Non serve che io ag­giunga al­tro».

Che effetto ti fa vederlo correre tra i migliori ciclisti al mondo?
«Sono felicissimo per lui e un po’ anche per me. Solo io ci ho creduto che ce l’avrebbe fatta. Non sai quante volte mi so­no sentito dire che non era un corridore, che non era un vincente, che non sarebbe arrivato da nessuna parte, che avevo scommesso sul cavallo sbagliato. Quante volte ho ingioiato il rospo, sentito l’amaro in bocca, ma avevo ragione io. Avete visto che razza di corridore è venuto fuori? Si sono ricreduti tutti, li abbiamo obbligati a farlo».

Come prosegue l’attività del Cycling Team Friuli, la culla in cui è cresciuto Alessandro De Marchi?
«Bene, abbiamo appena concluso i Campionati Italiani su Pista e ora ci accingiamo a chiudere questa stagione con le ultime corse in calendario. Per l’anno prossimo abbiamo deciso che rinnoveremo totalmente la squadra evitando la doppia attività, è troppo dispendioso dividere la squadra su più gare. Manterremo 4-5 giovani che sono già tesserati con noi e avremo in totale 10-12 corridori invece che 18 come quest’anno. Il nostro non è uno squadrone blasonato che conta 20-30 atleti e vince 50 corse l’anno, noi scopriamo talenti. Non abbiamo possibilità economiche come Zalf, Trevigiani e compagnia bella ma offriamo ai nostri ragazzi un calendario importante che permette loro di confrontarsi all’estero con le Continental. Solo così i nostri giovani possono davvero crescere. Non mi interessano i numeri, ma gli uomini. Non è un caso che la nostra società è quella che conta più laureati in assoluto. Ai ragazzi su cui investo mi interessa of­frire un percorso che li porterà ad essere pronti per il futuro, sia che continuino nel ciclismo che si realizzino in un altro campo. Mi vengono in mente tanti ragazzi dell’età di Alessandro che nelle categorie minori vincevano 10-15 corse all’anno e ora non si sa che fine abbiano fatto... Sai l’anno in cui Alessandro è passato professionista quante gare aveva vinto? Una appena, ma guarda dove è arrivato». E chissà dove arriverà il Rosso d’Italia.

di Giulia De Maio, da tuttoBICI di ottobre
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COMMENTI
le meteore restano meteore
26 ottobre 2014 17:16 armeniaquindio
Alessandro ha mostrato la sua luce gradualmene e sono convinto che continuerà a farlo. Alla distanza la serietà e il lavoro pagano. Bravo Alessandro. Ti ammiro!

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