PINOTTI, IL BUON ESEMPIO

TUTTOBICI | 31/01/2014 | 08:55
Marco Pinotti, l’ingegnere razionale che dava il me­glio di sè in pianura, ha chiuso la carriera in cima alla salita più bizzarra d’Italia: una strada creata quasi apposta per far impazzire i ciclisti… L’ultima sua salita (con il numero attaccato alla schiena) è stata il Muro di Sormano. «Ho pensato di smettere lì, ormai il Giro di Lombardia era andato, io ero lontano dai primi. E ho cercato di non rischiare. Non volevo farmi male in qualche caduta…».
Il pensiero del corridore all’ultimo metro di carriera è quello di un papà ormai maturo e con altri obiettivi all’orizzonte. Come quello di allenare e ve­dere se con cronometro e tabelle in ma­no se la cava bene come sui pedali.
Ha appeso la bici al chiodo da uomo sazio e appagato.
«L’Olimpiade di Londra è il ricordo più importante della mia carriera, è il sogno che ho inseguito dall’inizio e sono riuscito a esaudire solo alla fine. Rimpian­ti? Guardandomi indietro me ne vengono in mente tanti, soprattutto riguardo ai miei primi anni nella massima categoria. Basta vedere il mio palmarès, prima del 2007, avrei potuto raccogliere molto di più, ma nel complesso sono felice».
Ha lasciato da numero uno in Italia nella prova contro le lancette. Laure­ato­si per la sesta volta campione italiano a cronometro e con l’ennesima ma­glia azzurra onorata egregiamente.
«La mia è stata una decisione maturata già ad agosto. Mi sono concentrato sull’ultimo mondiale in Toscana, disputando anche la Vuelta. L’ultima mia ga­ra non poteva che essere il Lombardia, perché partiva dalla mia città, Ber­ga­mo, e si svolgeva per buona parte su strade che ho percorso migliaia di volte in allenamento».
Pinotti è il bravo ragazzo al quale, mol­ti anni fa, il direttore sportivo di una squadra giovanile non dava molte chan­ce.
«Non puoi pensare di correre in bici e andare a scuola - gli disse -. Se vuoi continuare a studiare va benissimo, ma facendo tutte e due le cose non arriverai a capo di niente».
Non andò così. Fece di testa sua e fece bene. Non è nato fuoriclasse, ma ha raggiunto i suoi traguardi con passione e impegno. Tutto cominciò quando Marco era adolescente. «Con tutti gli sport che hai fatto, perché non hai mai corso in bicicletta?», gli chiese un giorno suo nonno, grande appassionato.
«Quando avevo sedici anni, mio nonno morì. E quasi per esaudire quel desiderio, decisi di provare a correre in bici».
Da allora a oggi più di 20 anni di strade pedalate, fatiche, gioie e amarezze. Una carriera cristallina tanto che, ora che è entrato a far parte dello staff tecnico della BMC, il suo motto non può che essere coaching by example vale a dire allenare attraverso il buon esempio.
A 37 anni per l’ingegnere bergamasco si chiude una porta e si apre un portone. Nella sua testa ha già ben chiaro il suo nuovo traguardo, preparare un giorno la nazionale, ma come suo solito per ora non si sbilancia.
«Chiamatemi allenatore “precario”, datemi un paio d’anni - come si fa con i neoprofessioni - per capire se sono adatto a questo nuovo mestiere».

Ingegnere, dove hai lasciato la bicicletta?
«Non è ancora in garage se è quello che volete sapere. Continuo a pedalare anche se senza un programma preciso. Ci salto su quando ho un paio di ore libere e c’è bel tempo. In media ora passo in sella cinque ore a settimana, un quinto del tempo di quando gareggiavo, quello che basta per sentirmi bene fisicamente. Non mi è mai pesato allenarmi, mi manca già la vita del corridore...».

Non hai cambiato casacca, ma mestiere.
«Allenare mi piace molto, ma sono davvero agli inizi. Se fino a un anno fa ero concentrato solo su me stesso e a fine giornata ero stanco fisicamente, ora posso dedicare le mie energie a più attività. Tra luglio e agosto, quando con il team si parlava del mio rinnovo di contratto, mi è stato proposto questo ruolo perché la squadra aveva intenzione di aumentare il proprio staff interno. Dovevo scegliere se correre un altro anno o prendere quest’occasione al volo: non ho avuto dubbi».

Cosa fai concretamente?
«Seguo nello specifico alcuni corridori, per esempio Darwin Atapuma con il quale il mese scorso sono stato in Colombia per vedere come si allena a casa e conoscerlo meglio prima del primo ritiro stagionale della BMC che si è svolto negli Stati Uniti, e insieme ad altri due tecnici sono responsabile delle cronometro. Le prove con le lancette non potevano che essere il mio sbocco naturale. Il mio debutto sarà la crono del Giro del Mediterraneo, corsa nella quale l’anno scorso sono caduto malamente. Sarà un test, ci andrò con Bobby Julich e insieme seguiremo il protocollo che abbiamo previsto per le crono con la prova del percorso il giorno prima e quant’altro. In programma poi abbiamo la Tirreno-Adriatico e per il resto dell’anno ci divideremo le cor­se, insomma dovrò andare con le mie gambe (sorride, ndr)».

Bisogna prepararsi un’alternativa di lavoro prima di smettere, per non trovarsi spiazzati al termine della carriera agonistica?
«Personalmente credo di no. Ho visto tanti colleghi aprire attività prima di appendere la bici al chiodo ma per come sono fatto io, finchè correvo volevo dedicarmi totalmente a quello, anche per rispetto della squadra. Es­sendo molto esigente non ho mai dedicato tempo ad altro, facevo il corridore al cento per cento. Anche per questo il 2014 per me sarà un anno di apprendistato. Da atleta ero molto curioso e ho imparato molto sul mio stesso corpo ma un conto è allenarsi, un altro allenare. Ora ho ripreso in mano i libri e da questo mese inizierò a frequentare i corsi della FCI per diventare direttore sportivo. In realtà non è un ruolo in cui mi immagino in futuro, ma come si suol dire il pezzo di carta serve sempre».

Com’è essere dall’altra parte della barricata?
«Mi sono accorto che è difficile lavorare con 20/30 corridori che hanno altrettanti modi di pensare ed esigenze di­verse. Passando da corridore a preparatore bisogna ripensare il modo di porsi e lavorare. Non basta preparare una tabella, ma bisogna entrare in sintonia con il singolo corridore, adeguandosi alle sue abitudini per trovare un punto di incontro che sia proficuo e du­raturo. Sono felice di avere questa opportunità e che le squadre stiano iniziando a capire quanto sia importante avere dei preparatori interni al team. Quando investi tanto in un corridore, come si fa per un calciatore, è giusto che sia allenato da qualcuno che conosci e hai direttamente sotto controllo».

Le tue ambizioni in questa nuova veste?
«Inizialmente imparare e capire se so­no portato per questo lavoro. Il tempo dirà se sono in grado di costruire un rapporto efficace e produttivo con i corridori. Per me in questo senso è tutto nuovo, mi sento come fossi tornato ad essere un neoprofessionsta. Guardando più in là, ovviamente mi piacerebbe assumermi maggiori re­sponsabilità, diventare performance manager, quindi responsabile della programmazione del team più che dell’allenamento specifico dei corridori. Il mio capo ora è Allan Peiper, che è ap­punto responsabile delle prestazioni del team, per il futuro questo ruolo non mi dispiacerebbe affatto. In generale voglio formarmi per essere in gra­do più avanti di gestire un progetto tutto mio»

Il riferimento è alla Nazionale?
«Se ne è parlato molto sui giornali ma non ho avuto alcuna proposta concreta e soprattutto so di dover accumulare un bagaglio di esperienza maggiore per essere pronto a un ruolo del genere. Se una Federazione mi coinvolgesse sarei felice di mettermi a disposizione, è il mio nuovo sogno da realizzare. Se la chiamata arrivasse dalla FCI essendo italiano sarebbe il massimo, ma visto quanti bravi tecnici abbiamo nel nostro paese su ammiraglie straniere, non escluderei di testarmi anche all’estero».

Sarai ancora sempre in giro per il mondo... In famiglia cosa dicono?
«Per la felicità di mia moglie Michela e del nostro piccolo Davide, ma soprattutto la mia, passerò molto più tempo a casa che negli ultimi anni. Davide ha capito che è cambiato qualcosa. A colazione alla mattina all’inizio mi chiedeva: “Perché non mangi più i cereali?” Ora ha capito e allora dice: “Ah, papà non va più in bici”, però quando mi vede partire vestito da ciclista è un po’ confuso e non capisce perché ora a tavola posso concedermi qualche li­bertà in più che in passato».

Analizzando l’organico 2014 della BMC, da chi ti aspetti di più?
«Da Tejay van Garderen, che dopo l’ottimo quinto posto al Tour de France 2012 nelle corse internazionali è un po’ mancato. Ha vinto corse importanti in America ma alla Grande Boucle ha sofferto il rapporto conflittuale con Evans. Quest’anno andrà in Francia come capitano unico e sono certo potrà dire la sua. Che dire di Gilbert? É sempre stato un corridore allergico a essere inquadrato in termini di allenamento ma dallo scorso inverno è stato seguito ancor più da vicino per programmare meglio la stagione. Salterà le classiche del pavè per puntare tutto su quelle a lui più adatte, non disputerà il Tour per mettere nel mirino il campionato del mondo, insomma avrà una gestione più oculata rispetto alla stagione passata nella quale ha inanellato più giorni di corsa di chiunque altro. La squadra ovviamente da lui si aspetta risultati importanti».

La critica che spesso vi viene mossa è che avete troppi galli nello stesso pollaio.
«La BMC ha avuto dei problemi non per il numero di galli nel pollaio, ma perché quelli più attesi per un motivo e per l’altro non si sono affermati come ci si aspettava. Gilbert è stato sempre presente ma ha vissuto un’annata sottotono; Evans, terzo al Giro, al Tour ha pagato le fatiche della corsa rosa; Hu­shovd ha avuto a che fare con un brutto infortunio; Ballan, che un anno fa nelle classiche era tra i primi al mondo, dopo il grave incidente è ancora in ballo con problemi fisici... E poi la politica di scouting che ha adottato il team in ottica opinione pubblica, ha i suoi pro e contro. Se arruoli uomini che nella stagione precedente hanno vinto tanto è difficile che si confermino, i nostri capitani arrivavano dal­le loro migliori stagioni di sempre, scontato che le aspettative fossero alte. Anche se si tratta di campioni, ripetersi non è mai facile».

Come è messo secondo te oggi il ciclismo?
«Nel corso della mia carriera per certi aspetti è migliorato: la ridotta diffusione di farmaci rispetto agli anni ’90 e 2000 è evidente, d’altro canto per i vari scandali doping degli ultimi anni il nostro sport ha pagato molto a livello di immagine, soprattutto agli occhi del grande pubblico che non segue o conosce da vicino certi meccanismi. Il conseguente calo di appeal del ciclismo ha reso più difficile trovare sponsor nonostante costi poco e permetta un grande ritorno di visibilità. Rispetto al passato abbiamo squadre con budget superiori, ma che si fondano su un modello di business che non reggerà a lungo. Re­stiamo in piedi perchè ci sono appassionati che investono, ma mancano progetti di marketing di aziende esterne che comprendano quanto può dare loro questo mondo».

L’elezione di Brian Cookson alla presidenza dell’UCI ti fa ben sperare per un rilancio del nostro sport?
«La sua vittoria non è stata schiacciante come previsto, ma ha adottato una buona strategia comunicativa e fatto bene il suo lavoro in periodo elettorale. La sua elezione rappresenterà un cambiamento per il nostro sport, se oltre al vertice cambierà anche il gruppo di lavoro ad Aigle. Quello che ha fatto McQuaid in questi anni non è tutto da buttare, nell’arco dei suoi mandati il ciclismo è migliorato, ma non poteva non pagare certe sue prese di posizione come l’ostracismo all’USADA nelle indagini del caso Armstrong. Ad ogni modo io, non solo nello sport, sono contrario al terzo mandato. Dopo un certo arco di tempo è giusto cambiare facce. Mi auguro Cookson faccia bene, mi sembra una persona di buon senso e in Inghilterra usando i soldi della lotteria è riuscito a costruire un buon progetto».

Come valuti la riforma del ciclismo discussa per il 2015-2020?
«A prima occhiata non mi sembra troppo diversa dal ProTour: chi è dentro al sistema è dentro, chi è fuori è fuori. Forse va riveduta in parte, ma un cambiamento drastico, anche se ci farà passare un periodo di lacrime e sangue, secondo me è necessario. La struttura attuale del ciclismo non è sostenibile, dobbiamo promuovere meglio il nostro prodotto. Se questo comporta un nu­mero inferiore di corridori di vertice ben venga, è meglio ridurre la quantità ma aumentare la qualità. Meglio conservare meno posti di lavoro, ma che siano davvero tutelati e garantiti».

Il ciclismo italiano è in salute?
«Ci sono meno squadre ma questa tendenza è in atto da tanti anni ed è una conseguenza naturale della globalizzazione. La vecchia Europa è in difficoltà, non solo per quanto riguarda il mondo dello sport. Su 18 squadre World Tour ce ne resta una e mezza? Se pensiamo che il ciclismo si è allargato a 50/60 nazioni dobbiamo iniziare a convivere serenamente con questi nu­meri. L’Italia conta meno perché contano più che in passato altri paesi e altre economie. Per fortuna abbiamo ancora infrastrutture, uomini e gare dalla riconosciuta qualità e tradizione. Dob­bia­mo salvaguardare la nostra scuola».

Passiamo ai corridori del momento. Nibali è in grado di vincere il Tour?
«Se c’è uno che merita di vestire la maglia gialla è lui. Ha vinto il Giro e la Vuelta e in ogni corsa a tappe che con­ta è sul podio. Se si prepara come ha di­mostrato di saper fare per conquistare la maglia rosa, ce la farà. Lo vedo più avanti di Froome, che parte da fa­vorito numero uno ma temo farà la fine di Wiggins».

Cioè?
«Chris ha avuto una stagione 2013 fotocopia a quella 2012 di Bradley e penso che come lui farà fatica a riconfermarsi. Non voglio “gufargliela” ma per una questione di motivazioni e di impegni extrasportivi che comporta vincere la maglia gialla è raro vincere più Tour di fila. Sul suo stile in bici non credo ci sia molto da fare, ha leve e braccia molto lunghe. Non può mica tagliarsele! Per quanto riguarda Wig­gins resta un corridore forte, ma non tornerà mai più quello che ha vinto il Tour. L’ha detto lui per primo che non è più disposto ad affrontare sacrifici così importanti. L’ho visto in corsa e già l’anno scorso era un altro corridore. É tornato quello che era prima, più pesante. Potrà puntare alla Parigi-Rou­baix e a confermarsi tra i primi al mon­do nelle crono ma non ambire alla classifica delle grandi corse a tappe».

E dagli spagnoli Rodriguez e Contador che dici?
«Se Purito punta al Giro sarà una bella lotta con Quintana e Evans, è ora che vinca una corsa a tappe importante. Fa bene perché la corsa rosa tra i tre Gran Tour è la più adatta a lui. Alberto mi aspetto vada meglio dell’anno scorso, in cui ha performato meno di quanto ci aveva abituato. Non vorrei che abbia già iniziato la parabola discendente della sua carriera, aspetto una smentita sul campo».

Il “vecchio leone” Evans come sta?
«Non gli restano tante cartucce da sparare ma al Giro d’Italia so che sarà tra i primi. Il livello dei rivali sarà più basso rispetto al prossimo Tour e se l’anno scorso Cadel è riuscito a salire sul po­dio con una preparazione approssimativa, quest’anno - considerato anche il percorso - può puntare al risultato massimo. Se qualcuno lo da per battuto solo per la carta d’identità si sbaglia».

A proposito di vecchietti, si è discusso mol­to di Horner, tuo compagno di squadra nel 2005 alla Saunier-Duval (l’ingegnere ne parla nel suo libro Il mestiere del ci­clista, pubblicato nel 2012 da Edi­ci­cloeditore, ndr).
«La sua vittoria alla Vuelta non mi ha sorpreso. La sua prestazione non è stata fuori dal normale e il suo livello in salita è stato lo stesso dimostrato negli ultimi anni. Lo ricordo nel 2008 e 2009, quando faceva il gregario ed era al fianco di Contador fino all’ultimo, e conosco bene i numerosi infortuni che hanno compromesso le sue stagioni passate. È sempre stato penalizzato nelle crono, ma nell’ultimo Giro di Spa­gna ha trovato avversari non al top e le condizioni perfette per primeggiare. L’ho conosciuto quando aveva 34 anni ed era appena arrivato in Europa, lo ricordo con lo spirito e la voglia di un ragazzo alle prime esperienze nella massima categoria difatti, io che per età anagrafica sono più giovane di lui, ho già smesso mentre lui (se trova una squadra disposta a pagarlo quanto chiede) sarà ancora in gruppo per un paio d’anni».

Due parole per Quintana.
«I corridori sudamericani sono un po’ anomali, arrivano da situazioni diverse rispetto alla mag­gior parte del gruppo e possono soffrire la fama improvvisa ol­tre alla nostalgia di casa. Non mi sorprenderei se quest’anno an­dasse un po’ più piano, anche perché un conto è stupire quando nessuno ti conosce un al­tro riconfermarsi ma, se si gestisce be­ne, tra due o tre anni sarà tra i migliori al mondo nelle corse a tappe».

Sagan.
«C’è bisogno che io dica qualcosa? È un fenomeno».

Cancellara.
«Sarà ancora l’uomo da battere nelle classiche del Nord».

Rui Costa.
«Tatticamente è molto intelligente ed è forte ma, ora che dovrà portare la ma­glia iridata sulle spalle, un finale come quello del mondiale di Firenze se lo può sognare. Avrà tutti gli occhi addosso e al primo scatto gli andrà dietro tutto il gruppo».

Giovani promettenti che meritano una menzione?
«Mi aspetto che faccia bene nelle corse di un giorno Moreno Moser. Un’annata di adattamento dopo il salto dal dilettantismo al professionismo, soprattutto se da giovane non ha esagerato con gli al­lenamenti, ci sta. Per le corse a tappe per il futuro siamo al sicuro grazie a Fabio Aru, che oltre che forte è un corridore molto serio, e con Mattia Cattaneo, mio conterraneo che ha avuto un po’ di problemi fisici ma ha un in­dubbio talento. Mohoric? Pa­re un altro fuoriclasse, ma la­scia­mo­lo crescere con calma».

Il ciclismo per Marco Pinotti oggi è...?
«La bicicletta continua ad essere per me sinonimo di libertà, spensieratezza e be­nes­sere. Più che pedalare ora devo programmare le pedalate degli altri ma le idee migliori continuano a venirmi quando sono in sella. Il ciclismo resta il mio lavoro, anche se da qualche settimana lo è in modo diverso. Allenare è una passione che spero diventi un lavoro definitivo».

di Giulia De Maio, da tuttoBICI di gennaio
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