Wackermann, l'uomo di domani

LAMPRE MERIDA | 14/10/2013 | 09:06
Luca Wackermann, l’aggiusta tutto. Non fosse diventato un ciclista, avrebbe continuano gli studi per diventare architetto o geometra. Nonostante abbia solo 21 anni - è il più giovane corridore italiano del World Tour e uno tra i più giovani a livello mondiale - nel tempo libero si diletta con il bricolage, che non è proprio il passatempo più in vo­ga del momento tra i ragazzi. «Mi piacciono i lavoretti di casa, come imbiancare e sistemare le cose rotte».
In un’Italia di “bamboccioni” che non vogliono o spesso non hanno la possibilità di andare a vivere da soli, lui an­co­ra teenager ha preso armi e bagagli per inseguire un sogno ciclistico e... l’amore. «Mi sono innamorato della To­sca­na quando ero dilettante alla Ma­stro­marco - due stagioni più in ritiro che a casa, a Rho - e di Ila­ria, toscana di Monsum­ma­no Terme. Da un paio d’anni vivo qui con lei, vicino a Monte­ca­tini, sulle strade dei Mondiali».
Un ragazzo fuori dal comune, Wacker­mann: 188 cm per 65 kg di potenza e classe venuta alla luce presto, secondo alcuni troppo presto. Vincitore nella sua giovane carriera già di tre Oscar tuttoBICI nel 2005 come miglior esordiente, nel 2008 come miglior allievo e nel 2009 tra gli juniores, si è messo in mo­stra nella massima categoria un an­no fa come stagista della Lampre al Trittico Lombardo dove quest’anno, al­la prima stagione tra i big, è tornato con grandi ambizioni, frenate solo da una curva sporca che l’ha fatto finire gambe all’aria.
«Dopo 70 km dal via della Coppa Ago­stoni, svoltando ho perso il controllo del­la bici e sono finito contro un marciapiede. Ho messo le mani davanti per proteggermi il viso, ma ho battuto a terra petto e costato sinistro. Risultato: 8 punti al petto, 2 interni e 6 esterni, più trauma alle costole. L’unica consolazione è che non ho buttato giù Poz­za­to, vicino a me in quel mo­mento, che avrebbe poi vinto. Almeno quello...».
È un po’ abbattuto Luca, che nutriva grandi ambizioni per il finale di stagione, ma per sua stessa ammissione non è uno che molla facilmente: «Sono tornato in corsa al GP Plouay e voglio es­sere tra i protagonisti di molti altri ap­puntamenti di fine anno».
In tasca ha il diploma di geometra ma è la bici il suo mestiere: Luca prima di tutto pensa a mettere in fila i mattoni che gli serviranno per costruirsi una carriera da ricordare e raccontare «ai miei figli e ai miei nipoti, le carte per diventare un buon corridore non credo mi manchino».
Quali sono?
«Gambe e testa, ma soprattutto voglia di far fatica e di affrontare sacrifici perché arrivare in alto per un corridore non è facile come per un calciatore, bi­sogna farne di fatica!».
Allora perché non hai fatto il calciatore?
«Da bambino per qualche anno ho praticato contemporaneamente calcio, nuo­to, basket e ciclismo, finché ho scelto le due ruote perché mi piacevano di più e, a dirla tutta, in sella vincevo di più che con la palla e in piscina. Da allora il ciclismo è il mio mondo, parte integrante della mia vita, lavoro, passione ed è l’attività fisica migliore che si possa svolgere».
Ed è una “malattia” di famiglia...
«Sì, il capostipite è papà Robert che ha corso fino alla categoria dilettanti. Io ho seguito le sue orme e così hanno fatto tutti i miei fratelli, ad eccezione (per il mo­mento) di An­na che ha da poco compiuto 5 an­ni. Marco, secondo me il più talentuoso di casa, ha smesso l’anno scorso e ha preferito la strada dell’università: Econo­mia delle Imprese e dei Mer­cati. Poi ci sono Sara ed Elisa, rispettivamente Junior 1° an­no alla Valcar e Allieva 1° anno al­la Mo­linello. Il movimento femminile sta crescendo parecchio, spero per Sara che la bici possa di­ventare mezzo di lavoro. Elisa la vedo più titubante, corre per divertirsi e te­nersi in forma ma non so se le piacerebbe dedicare la sua vita al ciclismo. Vedremo... Tornando agli inizi, a 7 anni ho iniziato a fare qualche gimkana in mtb, dopo aver conosciuto al mare in To­scana una famiglia di Parma che aveva due figli che ci davano dentro con il fuoristrada, e man mano mi si sono messi tutti a ruota. I nostri genitori, papà im­piegato e mamma Gio­van­na insegnante di italiano, hanno trovato vicino a casa una squadra, la SC Bi­ringhello, a cui ci hanno iscritti per ga­reg­giare e così è iniziata la no­stra av­ventura a pedali».
Prima gara su strada?
«Da G3 con una biciclettina completamente grigia a Inverigo. Vinsi arrivando tutto solo. Da piccolo, come tut­ti i ragazzini che praticano ciclismo, so­gna­vo di arrivare al professionismo».
Ora invece cosa sogni?
«Di riuscire a costruirmi una bella carriera, fatta di successi sportivi e privati. Come atleta mi devo ancora scoprire, sono convinto di ciò che valgo e di ave­re ampi margini di miglioramento. Per ora non sono stato tanto fortunato, so­no uscito dall’Eneco Tour in ottima con­dizione, avrei potuto far bene tra il Trittico e Amburgo, ma pazienza. Alla fine si aggiusta tutto, no? Mi auguro di dimostrare quanto prima le mie potenzialità anche tra i professionisti».
Come ti definiresti come corridore?
«Un atleta completo. Riesco a tener be­ne in salita e a cronometro mi difendo. In una volata con un gruppo ristretto posso dire la mia».
Da ragazzo hai vinto moltissimo: il titolo di Campione Europeo da junior a Hoo­gle­de Gits nel 2009 ti ha portato alla ribalta. Guardandoti indietro, l’essere sot­to l’occhio attento delle grandi squadre è stato un bene o un male?
«Intendi se ho avuto troppa pressione? No, sono cresciuto in maniera serena e ho avuto la fortuna di avere al mio fianco persone abili nel trattare i giovani. Forse mi sono affidato ai procuratori pri­ma di altri, ma solo perché i fratelli Carera sono amici di famiglia e ho avu­to presto contatti con una squadra professionistica perché abito vicino a Giu­seppe Saronni. Insomma qualche coincidenza e fortuna, ma nessuno stress troppo presto».
Com’è stato l’impatto con i prof?
«L’inizio dell’anno è stato molto duro perché mi sono dovuto abituare ad un modo di correre e ad un’andatura di­ver­si rispetto a quelli a cui ero abituato da dilettante. Mi ha fatto un certo effetto trovarmi di fianco in gruppo campioni come Contador e Gilbert, che ero abituato ad ammirare in tv. Lì ho capito di aver raggiunto il so­gno di quando ero bambino».
Come hai speso il tuo primo stipendio?
«Non mi sono concesso nulla di speciale, ma mettendo qualche soldo da parte vorrei comprarmi una casa tutta mia. Ora io e Ilaria abitiamo in un appartamento, ma un domani sarebbe bello vivere in una villetta».
Soddisfatto finora dei piazzamenti raccolti tra i grandi?
«Sì, nonostante la caduta al Trittico sia capitata proprio nel periodo peggiore. All’inizio della stagione mi ero fissato l’obiettivo di imparare il più possibile, di capire i vari meccanismi di corsa e direi che ci sono riuscito. Avrei voluto conquistare qualche risultato in più, ora però penso solo a recuperare al me­glio per sfruttare i mesi ancora a disposizione per portare a casa qualcosa».
Anche nel 2014 vestirai la maglia della Lampre Merida: come ti trovi?
«Molto bene, con tutti. Es­sendo il più giovane, all’inizio ero un po’ spaesato, ma mi hanno fatto sentire subito uno di loro e questo mi ha dato tranquillità. Da tutti ho ricevuto suggerimenti utili. Il capitano con cui ho trovato il miglior feeling? Mi­chele Scarponi,  sa fare dav­vero gruppo, da lui non posso che im­parare».
Cosa pen­si dei nuovi ar­rivi?
«Sacha Mo­do­lo sarà una preziosa carta in più per le volate, potrà far lievitare il bottino della squadra. I ragazzi che stanno effettuando lo stage da noi sono miei coetanei, tra loro co­nosco bene soprattutto Valerio Conti con cui ho gareggiato tra i dilettanti, è molto forte, sarà un piacere tornare ad essere suo compagno di squadra».
Sei un fissato della tecnica?
«Abbastanza, di certo rompo pa­recchio le scatole ai meccanici perché vo­glio che la mia Me­rida sia sempre perfetta. Controllo spesso la posizione della sella e la posizione dei pattini dei freni. Sono molto pignolo».
Cosa non può mai mancare nella tua valigia?
«L’iPad, ma non sono un patito dei social net­work: facebook mi sembra troppo da ragazzini, twitter ce l’ho ma vi accedo con moderazione. Per intenderci non sono uno come Pippo che in ogni istante informa il mondo su quello che sta facendo (ride, ndr). Uso il tablet per guardare film e informarmi su ciò che succede nel mondo».
A chi devi dire grazie?
«Senz’altro alla mia famiglia: se non ci fossero stati mamma e papà, che hanno portato fin da bambini me e i miei fratelli in giro per le corse, non avrei raggiunto il professionismo».
Un corridore da emulare?
«Per la preparazione mi segue Michele Bartoli, che mi è sempre piaciuto come atleta. Mi basterebbe vincere una delle prestigiose corse che ha vinto lui in carriera per sentirmi appagato».
Uno su cui scommettere?
«Tra i giovani penso di andare sul sicuro indicando il nome di Moreno Mo­ser. Ha solo due anni più di me quindi ha senz’altro margini di miglioramento e per di più ha già fatto vedere di avere la cosidetta stoffa del campione».
Come te la cavavi a scuola?
«Ho preso il diploma di geometra, ma sinceramente non mi è mai piaciuto studiare. Fin da bambino avrei vissuto solo di bici, non appena finivano le le­zioni abbandonavo lo zainetto da qualche parte e saltavo in sella fino a sera».
E con le lingue straniere?
«Capisco e so dire qualche frase di te­desco perché i miei nonni paterni sono della Baviera, e poi parlo un inglese sco­lastico. Diciamo che posso migliorare parecchio...».
In squadra sei diventato il “cuoco”.
«Mi piace cucinare, soprattutto piatti salati e dolci. Vado forte con il tiramisù e le crostate, queste ultime per noi ci­clisti, attenti al mangiare sano, vanno benissimo».
La tua giornata ideale senza bici?
«Al mare! Per iniziare bene alla mattina ci vuole una bella corsetta, seguita dalla classica colazione con cappuccino e brio­che, e poi via a prendere il sole in spiaggia. La sera per finire cenetta con amici, famiglia o fidanzata».
L’ultima volta che hai riso di gusto?
«Non ricordo il giorno preciso, ma si­curamente il merito è di qualche battuta di Scarponi».
L’ultima volta che hai pianto?
«La mattina dopo la Coppa Agostoni quando sono uscito in bici e i punti al petto tiravano da morire».
Un film da consigliare?
«Limitless con Robert De Niro e Brad­ley Cooper, se non l’avete visto vi assicuro merita».
Il libro che più ti ha colpito?
«L’ultimo che ho letto è La corsa segreta di Tyler Hamilton, che racconta certi aneddoti... Spero che questo racconto riguardi il ciclismo del passato, che non abbia a che vedere con l’attualità dello sport che amo. Da bambino seguivo in tv il Tour de France e ammiravo le im­prese di Armstrong: scoprire che una persona che ti ha appassionato così tan­to era una colossale menzogna, fa male».
Anche nel presente non mancano casi di positività.
«Purtroppo è così. Chi decide di do­par­si è molto stupido perché oggi è qua­si impossibile schivare i controlli antidoping. Se non vogliamo parlare di morale, valori e correttezza anche riducendo tutto al piano pratico: il gioco non vale la candela. Chi insiste a prendere delle scorciatoie si fa del male da solo e, cosa ancor più grave, danneggia l’intero movimento, mettendo gli sponsor in fuga e lasciando a piedi di conseguenza colleghi e personale della propria squadra. Tante grazie a questi imbecilli!».
La tua corsa dei sogni?
«Mi piacciono molto le classiche delle Ardenne, in cui debutterò l’anno prossimo e che penso siano corse adatte a me. Tra tutte la mia preferita è la Liegi-Bastogne-Liegi per il lungo chilometraggio, le belle salite e il tifo pazzesco. Mi chiedi se la vincerò mai? Datemi ancora qualche anno».
Bene, grazie per la disponibilità.
«Figurati, grazie a te. Ora però vado che ho un paio di cose da sistemare a casa. Alla prossima!».

di Giulia De Maio, da tuttobici di settembre
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