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Quella di ieri la possiamo definire una giornata “manifesto” per il ciclismo africano. Nella sua manifestazione simbolo, il Tour du Rwanda, il gruppoè tornato dove era partito e non solo perchè le alture di Kigali ospitano un tambureggiante epilogo di frazione, portando alla ribalta l’eritreo Nahom Zeray. Già, questo 22enne di Asmara ricorda quanto siano state profetiche nei giorni precedenti le parole scambiate con Tesfatsion e Mulubrhan, che con il neoportacolori del Team Ukyo Ucl condividono molto.
Fare il podio con un coinquilino non deve essere cosa da tutti i giorni. Zeray, per il quale lo scorso anno ci sono state diverse prestazioni di livello con i colori della Q36.5 in terra italiana (terzo a Castelfidardo, 12° all’Appennino e al Giro di Toscana), abita a Vinci nella stessa abitazione dei connazionali ormai balzati nel World Tour.
Non solo Eritrea, peraltro (non vedetela come citazione didascalica) anche seconda venerdì nella quinta tappa grazie a Awet Aman, portacolori del World Cycling Center Uci. Passeggiare tra i bus allineati in partenza a Nyanza fa ben capire quanto il Tour du Rwanda sia il top di gamma assoluto in Africa (54 nazioni affiliate all’Unione Ciclistica Internazionale), grazie alla classificazione 2.1 che è un pò il marchio di qualità voluto fortemente dagli organizzatori e dalla federazione.
A proposito, il ct della nazionale rwandese, David Louvet, arriva dalla Francia, chiamato a dar corpo all’ambizione del Paese ai Mondiali: “Sono arrivato nell’estate 2023 e sono d’accordo con chi dice che molto in prospettiva lo faranno le azioni di promozione tra i più giovani, così numerosi e avvicinati alla bici dal Tour du Rwanda”.
Del resto non è casuale che qui ci si imbatta in una specie di “genius loci”, in dialogo ogni giorno con questa o quella compagine africana. Lui è inglese, di Londra, si chiama Jeremy Ford, ha 47 anni e da oltre un decennio ha fatto una scelta forte: “ho lasciato il lavoro da avvocato e mi sono dedicato e mi dedico alla fondazione Qhubeka. Tutto è nato da un’esperienza ciclioturistica con amici in Kenya. Qhubeka è arrivata a distribuire grazie alle donazioni raccolte 120 mila biciclette in Sudafrica e vedo il mondiale imminente come grande opportunità di sviluppo dell’attività giovanile in Rwanda e in tutta l’Africa. Ci tengo però a precisare che già oggi questo continente esprime un numero di corridori professionisti ben più alto di quelli di Asia e Stati Uniti o Canada messi insieme” – spiega mentre saluta affabilmente Kiya Rogora, passato per la Maltinti e ora in una continental canadese.
Poi, anche le situazioni di corsa ben esprimono la vivacità delle squadre locali, come durante la fuga dei sette di cui sei rwandesi che anima la tappa del sabato. Il settimo è Schutte, della nazionale sudafricana, il cui direttore sportivo descrive l’avvicinamento alla rassegna iridata rwandese, a caccia di preziosi punti Uci.Oltre a May Stars, Team Amani e Java Innotech, tutte targate Rwanda, la Bike Aid, affiliata in Germania, propone un soggetto solidale orientato alla crescita di crescita di ciclisti africani, sostenuta da 1200 soggetti a partire dal 2005, attraverso oltre un milione di euro.
Con il numero 94 di dorsale, Daniyal Matthews ha fatto la storia. Parliamo del primo sudafricano di colore che si è aggiudicato il titolo nazionale, mettendo a frutto anche quanto appreso in Germania al Team Südliche Weinstraße. Sudafrica non solo nazione che ospita Cape Town Cycle Tour, evento di massa con 35 mila partecipanti. In Rwanda, nella frazione di venerdì, Matthews ha raggiunto un risultato degno di nota per Bike Aid: “a fronte delle diverse opportunità che persistono, spesso per ragioni razziali, Daniyal ha sottolineato con la sua impresa la necessità di abbattere barriere. Lo sosterremo convintamente nel suo futuro percorso, proponendogli le competizioni europee che verranno, mettendo in risalto il suo potenziale” concludono i dirigenti del club di matrice teutonica. Aspettando la prima volta del Mondiale in Africa, insomma, certe basi sono state gettate.