Vivere una corsa di ciclismo dall’interno osservando da vicino come si muovono i protagonisti e cosa accade attorno a loro non capita tutti i giorni. All’AlUla Tour, grazie alla disponibilità e allo sforzo organizzativo di A.S.O. (che dal 2020 si fa carico di inscenare la corsa saudita), sia nella prima che nella seconda tappa ci è stata data questa irrinunciabile opportunità che, come avevamo subodorato, si è tramutata subito in un’esperienza a dir poco arricchente.
Essere in macchina nel vivo della corsa, infatti, ti dà modo di carpire dettagli e situazioni che in televisione sfuggono o non si riescono a cogliere in maniera compiuta. Ecco dunque che, attraverso la guida esemplare di due ex professionisti come John Gadret (nostro driver ieri) e Cristophe Le Mevel (al volante oggi), nelle prime due giornate di corsa in Arabia lo sforzo degli atleti ha assunto ai nostri occhi contorni molto più reali scorgendo i loro sbuffi, vedendoli a bocca aperta impegnati a tenere i 50 km/h o osservando le loro variegate smorfie in salita.
La fatica però non è l’unica cosa che viene percepita in maniera molto più vivida dalla macchina. Anche l’abilità tecnica e la facilità di pedalata dei professionisti diventano molto più tangibili seguendoli da vicino. Ne abbiamo avuto conferma vedendo a pochi metri da noi alcuni ragazzi rientrare in gruppo dopo i canonici piss stop facendo il pelo alle ammiraglie, altri gestire da equilibristi il contenuto delle proprie musette, altri ancora testare l’elasticità dei propri body caricandosi di borracce prendendo le stesse sembianze dei cammelli che li guardavano a bordo strada.
Gesti che in televisione sembrano quasi privi di rischi perché filtrati dalla distanza dello schermo, se ammirati in presa diretta, dunque, assumono tutta un’altra portata e danno bene l’idea dei funambolismi che tutti i giorni si compiono in gruppo lontano dall’occhio della telecamera.
Seguire una corsa dalla macchina, perciò, rispetto al farlo attraverso le immagini e la regia televisive, al contrario di quello che magari uno potrebbe pensare, non limita lo sguardo su cosa accade in gara ma amplifica (e di parecchio) il numero di particolari e movimenti che, tanto con gli occhi quanto con le orecchie, possono essere colti. Parliamo dei barrage imposti dai regolatori in moto, dai permessi accordati dall’auto della direzione ai fotografi per sorpassare i corridori e del loro andirivieni tra testa e gruppo, dei dialoghi tra ammiraglie, dagli incitamenti che si danno tra di loro gli attaccanti in fuga, della reale velocità a cui viaggiano gli atleti oppure di quanto sia rugoso l’asfalto e pericoloso un determinato tratto di strada.
Lo era sicuramente, ad esempio, quello in discesa che oggi, nell’ultimo giro del circuito finale, è stato affrontato dai corridori a passo controllato dopo la neutralizzazione imposta dalla giuria, una decisione questa che, avendo constatato in precedenza le condizioni del manto e la velocità (in alcuni momenti superiore ai 100 km/h) toccata la prima volta dai fuggitivi, personalmente non ha destato in noi così tanto stupore proprio perché eravamo consci dello stato in cui versava la strada.
Insomma, la macchina funziona da amplificatore visivo ed emozionale, ti aiuta a comprendere meglio certe dinamiche e certi comportamenti, ti assicura nuovi stimoli e ti fornisce un punto di vista esclusivo per restituirti, nel complesso, un’immagine alquanto più compiuta di cosa voglia dire e di quanto sia complesso disputare ai giorni nostri una corsa di ciclismo, uno sport che, vissuto dal suo interno, assume indubbiamente ancora più fascino.
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