Rappresenta l’Italia e l’italianità nel mondo, lui che ha sempre corso per formazioni forestiere, prima americane e adesso kazako-cinesi. Alberto Bettiol è cittadino del mondo, alfiere e pioniere, perché simbolo di un team che sta cambiando pelle, portando nel ciclismo di serie A un marchio di biciclette asiatico, cinese per la precisione.
X-Lab si chiamano le biciclette che adotterà l’Astana, che sarà affiancata sulle maglie dal marchio XdS Bikes, il più grande produttore di biciclette cinesi, uno dei più maggiori al mondo.
«Quando ho fatto visita alla loro unità produttiva a Xidesheg, sono rimasto sbalordito - ci racconta Alberto Bettiol appena dopo le festività natalizie -. Mi sono trovato in una città, non in una fabbrica. Non mi sembrava di essere finito in una unità produttiva, ma in un nuovo mondo, fatto solo di biciclette. Una strada lunga e infinita, che terminava all’interno di una immensa struttura: la XdS Bikes. Chilometri e chilometri di azienda, che produce biciclette e componenti di ogni tipo. Quest’anno festeggeranno i 30 anni di attività e si sono regalati un proscenio mondiale. Da sempre producono anche per conto terzi, in gruppo ci sono almeno sei marchi di biciclette che vengono fatte qui, e sono tutti marchi top, di altissimo livello, tra i più popolari e appetiti in assoluto».
Rappresenta l’Italia Alberto Bettiol, perché veste il tricolore nel mondo ed è la nostra prima copertina stagionale, in un anno importante per tuttoBICI, che a maggio soffierà su una torta da 30 candeline. Lui si presta ad una chiacchierata beneaugurante, alla vigilia della stagione numero dodici, che ancor prima di iniziare è già da ricordare e trasferire sui libri di storia.
Alberto, ti senti consapevole di essere testimonial di un passaggio storico? Ufficialmente quest’anno l’industria cinese entra da protagonista nel mondo del ciclismo che conta.
«Ne sono assolutamente consapevole e onorato. Quando ho accettato l’offerta della Astana sapevo che stavo firmando un contratto che mi portava oltre a quanto avevo visto e vissuto fino ad oggi. Non sono più un ragazzino, quella di quest’anno sarà la mia dodicesima stagione da professionista, ho sempre corso per formazioni americane (dalla Cannondale alla Bmc, per arrivare alla EF, ndr), ora vestirò il tricolore, un vero tricolore ben visibile, per una formazione kazaka-cinese e di questo ne vado orgoglioso, perché so che questa squadra, questo gruppo sta cambiando pelle. È una formazione ambiziosa. C’è tanta voglia di tornare agli antichi fasti e io spero di dare il mio contributo».
Ci sarà qualcosa di nuovo anche sul piano della preparazione.
«Vero. Dopo oltre dieci anni non mi seguirà più Leonardo (Piepoli, ndr), ma al mio fianco avrò una persona che ha grande esperienza ed entusiasmo, Maurizio Mazzoleni, che è il preparatore e coordinatore di tutto il team. Con lui ci sarà anche Gabriele Balducci, che mi segue fin da quando ero ragazzino alla Mastromarco: penso che nessuno mi conosca bene come lui. Gabriele farà parte dello staff e si confronterà con Maurizio per portarmi nelle migliori condizioni agli appuntamenti che mi aspetteranno».
Hai iniziato con l’Australia.
«Il Tour Down Under mi piace troppo e non potevo non metterlo nel mio programma. Quindi ripercorrerò in pratica il mio programma abituale, quello che più mi confà. Sarà un inizio classico, anche perché a febbraio preferisco correre piuttosto che fare ritiri in quota o allenamenti sfiancanti. Io conosco la cilindrata del mio motore e so come gestirlo».
E in Italia a quali corse parteciperai?
«Appuntamento a marzo, prima con la Tirreno-Adriatico e poi con la Milano-Sanremo».
La Classicissima sarebbe già un bell’obiettivo…
«Più che bello, un sogno. Ma è una corsa difficilissima da correre, perché folle, indecifrabile e imprevedibile…».
Un po’ come te.
«Magari. Certo, io sono uno che va molto a sensazioni, mi affido tanto all’istinto e in una corsa come la Sanremo un po’ di creatività aiuta, ma ci vuole tanta forza e tanto… ci siamo capiti».
Un po’ di sedere?
«Un pochino».
Obiettivo minimo?
«Spero, dopo la campagna del Nord, con il mio Fiandre da onorare, di poter rientrare nei piani del team per il Giro d’Italia. Se così fosse, potrei rinunciare a correre la Roubaix per prepararmi alla corsa rosa, che io adoro. Sarebbe bellissimo vincere una tappa con la maglia tricolore sulle spalle».
Parli d’istinto e cuore, di creatività, ma oggi c’è anche tanta ricerca e molta strumentazione da utilizzare.
«Io utilizzo questi strumenti nella fase di preparazione, ma quando c’è da correre mi spoglio di tutto e vado con la mia testa. Non voglio essere condizionato da uno smart watch che mi dice che ho dormito male. Se mi sento bene, faccio quello che mi viene di fare. I numeri sono importanti, ma non sono tutto. Se il ciclismo di oggi piace è perché ci sono corridori - autentici fuoriclasse - che si lasciano andare, senza paura di sbagliare. La sconfitta è solo una possibilità, nulla di irrimediabile».
Sei un uomo squadra.
«Mi piace essere un corridore parlante e pensante. E mi piace un sacco stare con i miei compagni di squadra, fare gruppo e crescere come collettivo. In questi anni ne ho incontrati tanti che se ne stanno sempre da soli, a guardare unicamente il computerino o il cellulare. Chiaro che oggi è tutto più esasperato, le giornate sono intense, piene zeppe di cose da fare, dalla palestra ai rulli, dalle foto alle interviste, dai massaggi allo psicologo, dall’incontro con gli sponsor allo yoga, dall’alimentazione rigorosa e calibrata a un buon libro che non riesci mai a leggere. Però un attimo per stare assieme e scambiare due parole e conoscersi meglio è fondamentale. Penso che se devi aiutare qualcuno o farti aiutare, tutto riesce meglio se quella persona la conosci. Se ti piace, gli dai ancora di più il cuore. Dicono: ma tu lo devi fare a prescindere, sei un professionista. Vero, ma io rispondo: per il momento non siamo ancora all’intelligenza artificiale, e i sentimenti, l’empatia di una persona tra le persone hanno ancora un valore».
da tuttoBICI di gennaio, cover story
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