Dolore, rabbia, sconcerto: questo è quanto possiamo provare ogni volta che un nostro atleta perde la vita, e così non poteva che essere per l’amata Sara Piffer, ultima di un elenco tragico e insopportabile.
Ed ogni volta che questo accade, inevitabile anche il ripetersi di tante esclamazioni quali: «non si può morire così», «basta con la mattanza dei ciclisti», «manca il rispetto per gli utenti deboli», «maggiori pene e sanzioni per i trasgressori», «serve una svolta culturale», «le autorità e il Governo intervengano per un deciso cambio di rotta», e tanto altro ancora.
Espressioni di emotiva spontaneità ampiamente comprensibili e condivisibili che però, per quanti hanno un ruolo e un potere nell’ambito civile e sportivo, devono spingere ben oltre, verso azioni concrete per risultati concreti, evitando il rischio di dichiarazioni di mera circostanza.
Dopo la morte di Sara, su sollecitazione del presidente Dagnoni lo stesso ministro dello sport Abodi ha dichiarato di volersene fare carico interessando i ministeri competenti oltreché ascoltare la stessa FCI.
Ben venga tutto questo, ma per evitare che gli auspici vengano fatti passare per la soluzione, la domanda è: di preciso, che cosa si ha in testa di chiedere per la tutela dei ciclisti in allenamento? Perché di questo si sta parlando, pur coscienti di altri aspetti come la sicurezza in corsa o quella dei ciclisti in genere.
Si badi bene, su questo fronte la paura dei genitori è a livello di guardia e lo scoraggiamento delle società di base altrettanto. Così come è grave non si possa garantire condizioni di lavoro sicure per chi del ciclismo ne fa una professione.
Oltre le conseguenze del calo demografico, se dovesse pure prendere consistenza la percezione che il ciclismo è uno sport dove è reale si possa perdere la vita, i danni in prospettiva potrebbero essere irreversibili. E questo penso sia la consapevolezza del presidente della FCI quando, dopo la sua netta riconferma, ha indicato la sicurezza come priorità del suo nuovo mandato.
Le ipotesi di lavoro possono essere tante e tante quelle giuste, basti pensare al recente e utilissimo convegno di Quarrata, ma dal momento che nessuno potrà mai conquistare una condizione ottimale, risolutiva, quasi di assenza del rischio, si metta nero su bianco da dove si vuole incominciare, rifuggendo da quei titoli generici che dicono tutto e nulla. Per battere la paura, le famiglie, le società, gli atleti, hanno bisogno di capire. Serve una sorta di “roadmap” della sicurezza, con anche i tempi di percorrenza.
Il nuovo codice della strada, con la modifica dell’art.148 ci ha dato la regola del metro e mezzo per il sorpasso dei ciclisti. Un risultato importante, voluto in primo luogo dall’ ACCPI, che va diffuso e valorizzato affinché la misura metrica diventi soprattutto misura di coscienza nel voler ogni volta considerare con prudenza le singole circostanze. Mi auguro che questa norma non la si voglia derubricare esaurita in sé per il solo fatto di averla ottenuta.
Ma, se, come molti dicono, non bastano le regole ma serve che le regole siano rispettate, allora una cosa che il ministro dello sport e i suoi colleghi Salvini e Piantedosi possono fare nel giro di poche settimane, è quella di finanziare attraverso i loro dicasteri e la Presidenza del Consiglio una vasta campagna d’informazione televisiva e giornalistica a salvaguardia dei ciclisti e delle gare ciclistiche. Lo si fa per tante categorie e non credo proprio che i nostri ciclisti meritino meno dei cani abbandonati in autostrada. Qui non ci sono leggi da modificare, ma solo voglia di spendersi, anche nel senso economico, dimostrando coerenza rispetto alle assunzioni d’impegno ancorché dare un segnale forte di voler voltare pagina, di voler affermare una diversa cultura. Il Paese e il ciclismo, hanno bisogno di esempi.
La lunga discussione sul nuovo CdS avrebbe dovuto prestare più attenzione al ciclismo sportivo, ma nulla è davvero perduto. Il testo entrato in vigore il 14 dicembre scorso, come dicono gli esperti, contiene semplicemente dei provvedimenti correttivi urgenti, mentre invece, la vera riforma sarà quella che avverrà attraverso la legge delega concessa al Governo, il cui percorso dovrà concludersi entro dicembre di quest’anno.
A questo scopo sarà costituito uno specifico gruppo di lavoro che dovrà proporre, modificare e aggiustare tutto il necessario possibile e che ben si presta perché anche le proposte della FCI siano portate su quel tavolo. Sarebbe un vero peccato si perdesse questa occasione per chiedere la presenza anche di esperti conoscitori di ciclismo, che portino avanti soluzioni appropriate per la tutela degli atleti in allenamento, quali: la possibilità di essere facoltativamente scortati da veicoli opportunamente equipaggiati (lampeggianti, cartello “ciclisti in allenamento”, ecc.), la possibilità di viaggiare per file parallele in quanto più sicure (come ad esempio già avviene in Svizzera e Germania), nonché l’impiego di motostaffette o scorte tecniche in attività di segnalazione a loro protezione. Proposte non nuove, che in più occasioni hanno trovato considerazione negli ambienti del Ministero dell’Interno.
Ma oltre a questo, la stessa FCI può da subito proteggere meglio i propri atleti in allenamento, con una soluzione rapida e per così dire fatta in casa, introducendo nelle Norme Attuative dell’attività su strada (e poi nel R.T.) che i dispositivi di segnalazione luminosa che devono essere sempre presenti e funzionati sulla bici, come stabilito dal nuovo art. 68 del CdS, siano anche obbligatoriamente tenuti accesi, per accrescere la possibilità di essere visti, condizione quasi sempre richiamata da chi investe un ciclista.
Lo si è fatto anni orsono per il casco nonostante il CdS non lo prevedesse, lo si può fare altrettanto adesso per questi utilissimi dispositivi luminosi, sempre meno impattanti e sempre più efficaci, veri salvavita. Magari con l’aiuto di uno stanziamento ad hoc da parte del Consiglio Federale perché l’obbligo trovi applicazione in tempi rapidi e senza ulteriori oneri per le società e le famiglie.
Per la sicurezza può servire tanto altro e su più fronti. Ma intanto, volendo, è possibile trasformare il lutto per Sara e per altri prima di lei, nell’impegno concreto affinché il ciclismo oltreché scuola di vita, sia vita sempre!