Se il ciclismo fosse una questione idraulica, avrebbe imperato per un decennio. La bicicletta è movimento e anche acqua, è tubi e anche pressione, è corrente e anche energia, è sport ma non uno sport liquido. E così la parabola di Ernesto Bisacchi detto Stefano è stata intensa ma breve: come un acquazzone.
Preciso fin dalla nascita (primo gennaio del 1952, a Cesenatico), papà ferroviere, mamma casalinga, un fratello maggiore di nove anni, Stefano aveva sei anni quando ricevette in regalo una biciclettina, “una Battistini, non Graziano il corridore spezzino ma Tarquinio il ciclista di Cesenatico, che una volta regalò una bici al Papa”. Era così felice, Stefano, che “caricai mio fratello sulla canna e lo portai fino a casa, immaginarsi, io sei anni, lui quindici, eppure ci riuscii”. E ne aveva sedici quando ricevette la prima bici da corsa, “da allievo, nel Gruppo sportivo Riviera, dove Pio Paganelli ci trattava come se fossimo tutti figli suoi”. La prima corsa coincise con la prima vittoria: “Si correva a Cesena, in un circuito, Paganelli si era sistemato in una curva, dove rallentavamo, così poteva parlarmi meglio, continuava a ripetermi di stare attento a quello là, quello là era Ivan Benedetti, poi in volata lo superai, e a Paganelli dissi che sarebbe stato meglio per Benedetti stare attento a me”. Non solo strada, ma anche pista: “Paganelli continuava a ripetermi che se vuoi imparare ad andare su strada, devi pedalare su pista. E ancora adesso gli do ragione. Ci allenavamo nel velodromo di Forlì. Su, giù, dentro, fuori, insieme, a contatto. E senza freni. Perché adesso in strada finiscono tutti in terra? Perché nessuno ha mai imparato a correre in pista”.
Stefano, sulla bici, aveva intenzioni serie: “Emigrai in Toscana, due anni alla Casabella di Perignano, uno alla Mobilieri di Ponsacco. Qualche vittoria, molti piazzamenti. E continuai con la pista. Mi videro grande e grosso, uno e ottanta per ottantuno-ottantadue, mi destinarono all’inseguimento, imparai a spingere e limare, nell’individuale e a squadre, e non è mica detto che uno bravo nell’individuale lo sia anche a squadre, nell’individuale è indispensabile la regolarità, a squadre l’armonia. Ed è anche una questione di velocità”.
Poi altri trasferimenti: nel 1974 il ritorno da Paganelli, nel 1975 e 1976 alla Niteba di Pesaro. Guido Costa, il commissario tecnico della pista, selezionò Stefano per l’inseguimento sia individuale sia a squadre: “Ai Mondiali solo in quello a squadre. Ma ci andò male: sesti nel 1974, quarti nel 1975. In quella occasione sbagliò Costa: con me, Beppe Saronni e Rino De Candido in qualificazione c’era Cesare Cipollini, che poi lui sostituì con Orfeo Pizzoferrato. Ma Cipollini aveva nelle gambe i sessanta all’ora, Pizzoferrato, che era fortissimo nell’individuale, i cinquanta. Dopo i Mondiali 1975 di Rocourt, una settimana a casa e poi i Giochi del Mediterraneo ad Algeri. Velodromo, pista in cemento, 400 metri come si usava allora. La sistemazione in una specie di collegio, di università, tutti insieme. I primi giorni si mangiava brodo di caprone… Poi, per fortuna, arrivò cibo dall’Italia: pasta, olio, grana… e con il grana ci rifacemmo gli occhi, e anche la gola. In gara non fu una passeggiata, ma quasi. Oro a squadre davanti alla Spagna e alla Grecia, oro a Pizzoferrato e argento a me nell’individuale”.
Bisacchi era considerato il metronomo del quartetto, il regista, dettava i tempi, scandiva i cambi, dirigeva l’armonia: “Ero stato selezionato per un ritiro preolimpico ai Giochi di Montreal 1976. Ma da tempo dovevo ricevere 800mila lire come rimborsi e premi. E quelle 800mila lire non arrivavano mai. Arrivarono l’ultimo giorno, quando ormai avevo deciso di tornarmene a casa. Quelle 800mila lire mi avrebbero fatto comodo, ma non mi avrebbero cambiato la vita. E così, con un gesto di orgoglio, gli dissi che avrebbero potuto tenersele”.
Anche la strada gli procurò un dispiacere: “Corsa della Pace, la vecchia Praga-Varsavia-Berlino, 14 tappe, i professionisti dell’Est e i dilettanti dell’Ovest, io nella Nazionale italiana. Ma qualcosa non funzionava. Il ct Elio Rimedio, meccanici e massaggiatori se ne stavano in un tavolo, noi sei azzurri in un altro. Neanche ci parlavano. Eravamo trattati come carne al macello. L’ultima tappa, da Magdeburgo a Berlino, 163 chilometri, fuga a quattro, rientrai da solo, mi accodai appena prima di entrare nella pista, il fondo aveva qualcosa di plastica, legava, frenava, riuscii a rimontarne uno, quasi due, fui quarto”.
La vita è un rubinetto: chiuso il ciclismo, ricominciò l’idraulica. “Ancora adesso – ammette - che di anni ne ho settantatré”. Se la classe fosse acqua, Ernesto Bisacchi detto Stefano sarebbe nella storia.