Per 47 volte è stato lui il signor Giro d’Italia. Le prime tre volte lo diresse con Armando Cougnet, caporedattore della Gazzetta dello Sport, settore Ciclismo, che il giorno dell’assunzione andò da casa al giornale in bicicletta, il bello è che lui abitava a Reggio Emilia e il giornale aveva sede a Milano. Le altre 44 volte lo governò da solo, anche se gli ultimi anni lo sosteneva valorosamente Carmine Castellano, avvocato, che però dalla natia Sorrento all’adottiva Milano preferiva andare in macchina.
Così, ogni volta che si annuncia la presentazione del Giro d’Italia (domani, finalmente, a Roma), è aritmetico (e anche doveroso, e anche ovvio, e anche storico) ripensare a Vincenzo Torriani. Tirannico, despotico, irascibile, ma scaltro, inventivo, geniale. Adrenalinico, fumantino, audace, il meglio lo dava sotto pressione. Quella sigaretta, quell’impermeabile, quel mezzobusto. La voce roca, lo sguardo agguerrito, la risposta pronta. Doti affinate e affilate in tempi in cui non esistevano computer e telefonini, internet e wifi, ma colpi d’occhio e strette di mano, parole date e favori reciproci. In cui era indispensabile prendere decisioni istantanee, escogitare soluzioni immediate. Un regno fatto di conoscenze, e anche di cinismo.
Tre anni fa Sergio Giuntini ha scritto “Vincenzo Torriani e l’Italia del Giro” per Prospero Editore (400 pagine, 19 euro, con la prefazione di Sergio Meda). Un saggio che comincia a Novate Milanese, in un cortile detto dell’ouiliè, perché lì gli avi di Torriani avevano un frantoio con rivendita di oli, vini e granaglie, e si conclude a Milano in via Mauro Macchi, dove lui fu spento dall’Alzheimer. Pochi chilometri in linea d’aria, ma nel percorso dei suoi quasi 78 anni, l’equivalente di una quarantina di giri del mondo disegnando labirinti dallo Stelvio all’Etna, da Città del Vaticano a Venezia, dall’Isola d’Elba a Lago Laceno, fra strade silenziose e viali trionfali, tornanti dolomitici e piazze d’armi, con Montanelli e Fossati, Zavoli e Raschi, da Coppi e Bartali a Merckx e Indurain. La storia del ciclismo e la storia d’Italia.
Ma Giuntini ci dona molto di più. Da storico, scava e scandaglia, fruga e trova. Le due volte in cui Torriani fu candidato alla Camera dei Deputati, sempre per la Democrazia Cristiana, entrambe le volte bocciato, anzi, “trombato”. La volta in cui Torriani – la sua ammiraglia aveva investito e ucciso due bambini - fu visto piangere da Raschi. La volta in cui Torriani offrì cento biciclette a Paolo VI da destinare a bambini poveri. Quella volta in cui Torriani fece transitare la corsa da Erto, travolta dalla tragedia del Vajont, dove un gruppo di tifosi aveva esposto il cartello “I superstiti salutano il Giro”. Quella volta in cui Torriani, in una vertenza con la Federazione ciclistica italiana, fu salvato da un dissidente, Dante Garioni, che lui avrebbe promosso da operaio all’Alfa Romeo a rappresentante della Salvarani e infine a vicedirettore del Giro d’Italia. Quella volta in cui Torriani partecipò a una riunione in un ristorante milanese per discutere del “recupero morale” di Coppi, ed era già stato individuato un appartamento (a Milano – per coincidenza - in via Napo Torriani, nessuna parentela), dove il Campionissimo avrebbe potuto vivere senza la Dama Bianca.
Torriani teneva il coltello dalla parte del manico. Squadre e corridori ubbidivano. Magari mugugnando, magari brontolando, magari sbuffando, ma ubbidivano. L’unica trasgressione, collettiva, liberatoria, comprensibilissima, era quel “paga Torriani” con cui i gregari, alla ricerca di qualsiasi bibita, saldavano i conti con baristi trafugati, cantinieri scippati e osti disperati.
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