Siccome mi sono commosso, davanti ma anche “dentro” alla televisione, quando la corsa olimpica su strada è passata sotto la collina di Montmartre, a me molto cara, con un immenso”stadio” di gente inventato nei pressi della “butte”, la scalinatella dei parigini, e siccome a quasi novant’anni commuoversi è insieme cosa troppo facile e reato di manipolazione sentimentale nei riguardi di chi ti sta vicino e crede in te e magari ti legge, mi sento in dovere - tutto sommato un dovere pure giornalistico - di cercare e di spiegare il perché di questo dispiegamento e appagamento attivo di sensi. Trattasi di cosa vitale di noi ciclofili o ciclomani, meglio (!!!???) se anzianotti, lì per uno spettacolo che dura pochi secondi, e per il quale rarissimamente si paga un biglietto (ma attenzione, niente di gratuito, anzi: spostarsi spesso in auto, meglio si capisce se su una montagna impervia, per vedere il passaggio rapido di una corsa costa eccome, in carburante, lavoro, tempo sottratto ad altro lavoro magari remunerativo assai, impegno anche fisico, ecc. ecc.).
Il mio maestro, collega ed amico Bruno Raschi, giornalista sommo (soprannome “il Divino”) che mi guidò agli inizi di Tuttosport dopo essere stato, lui fratel Albertino delle Scuole Cristiane, mio supplente di religione nell’unico mio anno di scuola media privata, il primo, che feci al collegio San Giuseppe di Torino, diceva e scriveva del mistero dell’attesa. La gente cioè, anche quella convocata a Parigi dall’Olimpiade 2024 e non dissuasa dai costi folli dei biglietti di accesso al cuore sportivo della Ville Lumière, stava e sta (a proposito: Bruno Raschi è sempre vivo per me, che sempre sia lodato) gustandosi l’attesa, crogiolandosi negli autoindovinelli su chi sarebbe pedalando sbucato per primo da quella curva, e pazienza se uno con l’impronunciabile nome di Remco Evenepoel, l’asso belga dominatore ai Giochi, lui fra l’altro massacrato da una caduta terribile in un Giro di Lombardia, e rinato alle corse dopo lunghi travagli sanitari.
Radioline prima e televisorini trasportabili poi avrebbero dovuto cancellare, con informazioni costanti sul divenire della corsa, le delizie dell’attesa, così che quando finalmente passano loro, i corridori, si può sapere quante volte ognuno di loro si è soffiato il naso nei chilometri precedenti la sua apparizione, la sua epifania da quella curva: ma ammassamento di gente e però anche devozione al vecchio rito con viziosa continua adesione ad esso, specie fra i non giovani, fan sì che radioline e televisorini da strada siano pochi e poco usati, mentre a giovani e quasi adulti (sesso maschile, comunque: segua dibattito) masochisticamente sempre piace anche correre in salita, agitando bandiere, fiancheggiando e riempiendo di urla e di pericoli chi pedala, sino al fuoco nei polmoni.
Rito questo sofferto, arduo, in fondo gradito ai corridori, inspiegabile a chi cerca sempre spiegazioni di tutto, la rava e la fava, ma sicuramente esercizio pervaso di filamenti sentimentali, di spruzzi di fantasia di testa e d’anima, persino attraversato da sentieri di solidarietà e spartizione di affanni e di fiatone, di paure da caduta e altro.
Io, seguendo le corse in bicicletta che continuo ad adorare, pratico il mistero dell’attesa. Dal 1946 dico, l’anno della prima mia visione del Giro, portato non ancora undicenne da mio papà a vederlo passare, noi due in strada appena fuori Torino, arrivò un’auto di quel seguito che però sempre precedeva e mio padre gridò “ciao Raro!” e Raro (Ruggero Radice, celebre giornalista suo amico), dall’auto rispose forte “ciao Ezio” ed io ero tutto fiero di loro. Ho il mio mistero dell’attesa, aspetto la fata o il dinosauro in bicicletta che sbuca da quella curva, se non ci fosse stata tutta quella gente a Montmartre e soprattutto se io fossi stato a Parigi, si capisce, sicuramente ne avrei capito di più, di altro, di nuovo, di bello.
da tuttoBICI di settembre