La storia di una città si legge sulle pietre, quelle delle case e dei palazzi, dei monumenti e delle mura. La storia di una città si riconosce dal ritmo, quello sui marciapiedi e sulle scale, e dal profumo, quello dei forni e dei giardini. La storia di una città si tramanda negli abitanti, nei volti e nei colori, nei gesti e nell’accento. La storia di una città si ritrova anche nelle biciclette, quelle che vanno a spasso o di corsa, quelle che vanno in pista o su strada, quelle che vanno come moto e quelle che non vanno neanche a spinta.
Franco Bocca scrive la storia di Torino in bicicletta: “La Torino del Cit” (Hever, 22 euro, con la prefazione di Paolo Viberti), che poi sarebbe non Torino ma la provincia di Torino, non solo Nino Defilippis detto il Cit ma anche campioni e gregari, squadre e velodromi, corse e tappe, Giri d’Italia e Tour de France: 280 pagine tra ritratti e interviste, ritagli ed elenchi, foto e tessere, fino a bibliografia e ringraziamenti. Una dichiarazione di amore, un certificato di appartenenza, un’enciclopedia di emozioni, un almanacco della memoria, insomma un album di famiglia, la grande famiglia torinese del ciclismo.
Storie. Da Defilippis (“Se non avessi conosciuto Graglia, non sarei mai diventato un corridore. Ricordo che al primo incontro, per saggiare il mio carattere, non esitò a elencare tutte le difficoltà cui sarei andato incontro: crisi di fame e di sete, cadute e pericoli sempre in agguato…”) a Guido Messina (“Alla fine della guerra, fui assunto come aiutante dal ciclista del mio paese, un ex corridore che per arrotondare i magri utili noleggiava alcune biciclette. Senonché non tutti erano puntuali a riconsegnare le bici prese a nolo, e toccava a me rintracciare e magari inseguire i ritardatari…”), dagli amatissimi Franco Balmamion e Italo Zilioli al domestico Gigi Mele (“Una volta capitammo in un bar già ‘svaligiato’ l’anno precedente. Il padrone ci aspettava al varco. Ci lasciò entrare con tanti sorrisi e poi tirò giù le serrande per chiuderci in trappola”) al medico Enrico Peracino (“La sera andavamo a trovare i corridori in albergo e io li visitavo, a uno a uno”), da Stefano Baudino che da pistard è diventato scrittore (“Se anche una sola persona sentirà il desiderio di salire in bici dopo aver letto uno dei miei libri, allora avrò raggiunto il mio scopo”) a Gianni Savio che da corridore innamorato del calcio è diventato general manager scopritore di talenti (da Cacaito Rodriguez a Egan Bernal).
Tra le storie, stavolta, una riguarda lo stesso autore. Lo fa, contravvenendo alla sua riservatezza, per giustificare il titolo dedicato al “Cit” Defilippis. “Nel mese di luglio del 1957”, “anche se in me il sacro cuore del ciclismo non si era ancora acceso”, ascoltava “la radio, collocata su una mensola posizionata così in alto che per accenderla dovevo salire su una sedia”, “quel giorno il radiocronista (seppi più tardi che si trattava di Adone Carapezzi) disse che aveva vinto il Cit”, e “ho deciso all’istante di diventare un suo acceso tifoso”.
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