MOSCHETTI STORY. «IO, CON LA FRANCIA NEL DESTINO...»

INTERVISTA | 30/10/2023 | 08:20
di Nicolò Vallone

Domenica 17 settembre, da poco passate le 16 e 20 di un pomeriggio di fine estate dalle parti del Pas de Calais. Un plotone furente macina pedalate dal fruscio sempre più vibrante, via via che si avvicina alla linea bianca d’arrivo. In testa due maglie rosse griffate Arkea Samsic lanciano lo sprint, ma il loro piano sfuma quando sul traguardo si presentano davanti a tutti un variopinto uomo Lidl Trek e uno vestito di grigio dalle varie sfumature. Rapidi colpi di reni, occhiata al replay, esultanza italiana.


Matteo Moschetti di anni 27 da Ro­becco sul Naviglio, figlio di un territorio di tante bellezze e poche alture, pa­tria di aperitivi estivi dei milanesi tra ciottoli, ponti e villette, sede di biciclettate lungo il corso d’acqua meneghino. È lui, forte di contratto biennale con la “nuova” Professional italo-svizzera Q36.5, il mattatore del Grand Prix d’Isbergues.


Matteo, in questa tua seconda vittoria sta­gionale ti sei messo alle spalle ex ma­glie verdi e ciclamino come Mads Pedersen e Arnaud Demare: ce la racconti?
«Una volata difficile dove sono riuscito a spuntarla per millimetri su un ex compagno di squadra di prestigio come Pedersen, uno dei migliori corridori al mondo, col quale ho condiviso tanti allenamenti quando correvo nell’allora Trek Segafredo. Un grande orgoglio per me».

Il 12 febbraio, nella tua seconda uscita stagionale, avevi conquistato la Clasica de Almeria: qual è il tuo bilancio della prima annata nel team diretto da Doug Ryder?
«Sono abbastanza contento, era partita benissimo poi sono riuscito a essere regolare con appuntamenti e piazzamenti (tra gli altri: quinto alla Milano-Torino, terzo di tappa allo ZLM Tour e al Giro di Polonia, secondo al Giro di Slovenia, terzo alla Voix du Nord di Fourmies, ndr). Non ho vinto tanto è vero, qualche podio poteva es­sere risultato pieno e invece mi sono dovuto accontentare, ma questo Isber­gues mi ha dato qualcosa di importante in vista degli ultimi impegni».

Del resto, la volata è un micro-universo di situazioni e dettagli dove la testa può for­se fare la differenza ancor più delle gambe...
«... difatti a livello puramente fisico e di esplosività mi sento sui miei soliti livelli, però quest’anno ho tratto giovamento dall’avere più chance a livello personale».

E non c’è velocista senza il suo treno!
«Certamente, la volata è pure un gran gioco di squadra. In Q36.5 ho trovato un ottimo ambiente e all’Isbergues mi hanno supportato al meglio: in particolare è stato fondamentale Pa­ri­sini che mi ha pilotato fino ai 6-700 metri».

Dicci qualcosa su questo 23enne pavese di Cilavegna, lanciato dalla Beltrami e proveniente dalla Qhubeka (dalle cui ceneri, in un certo senso, è nata la Q36.5)
«Nicolò è un ottimo neoprofessionista, ne sentiremo sicuramente parlare nei prossimi anni  (dieci giorni dopo la realizzazione di questa intervista, Pa­risini ha vinto la terza tappa della Cro­Race, ndr)».

Torniamo a te. Ci voleva un salto indietro di categoria, quindi, per trovare la co­stanza di cui avevi bisogno dopo un quadriennio non semplice nel World Tour?
«La scelta di sposare il progetto Q36.5 è nata dalla voglia di riscattarmi dagli alti e bassi e dalle sfortune che mi erano capitate. Qui ho trovato in ogni caso un contesto altamente professionale e organizzato, che peraltro ha avuto inviti a diverse classiche monumento. L’unica cosa che magari ci man­ca ancora è l’invito a una grande corsa a tappe. Giustamente però era il nostro primo anno, nel prossimo speriamo di avere occasioni in tal senso».

Intanto siamo sicuri che si unirà al vostro organico un uomo d’esperienza come Gia­como Nizzolo.
«E ne sono davvero felice, è un velocista molto solido e più completo di me: non vedo l’ora di lavorare anche con lui».

A proposito di rapporti con in compagni di squadra: da dilettante hai corso insieme a gente come Ganna, Sobrero, Vlasov, Gazzoli, Gamper, oltre a Juanpe Lopez, Ries e Mosca che poi sono stati tuoi compagni alla corte di Luca Guercilena...
«Parecchi grandi nomi, già. In particolare ho un fantastico rapporto con Jacopo, un’amicizia che va oltre il ciclismo. Quando ci siamo incrociati alle corse quest’anno ci siamo ricavati ove possibile dieci minuti per chiacchierare durante tappe o fasi di gara meno im­pegnative».

Fai anche “gruppetto” tra colleghi residenti nel Principato di Monaco?
«Qualche allenamento insieme ci scappa, ma ultimamente è più difficile perché le tabelle e i programmi di lavoro sono sempre più specifici per ciascun corridore».

Mettiamo per un attimo da parte il presente e il fu­turo, per andare alle ori­gi­ni di Matteo Mo­schetti: come, quando e per­ché nasce la tua passione per la bici?
«Come tanti bambini italiani mi di­vertivo a giocare a calcio, facevo il di­fensore. Quando ave­vo otto anni andai però a vedere una gara di mio cugino Simone, di un anno più piccolo di me, che correva nel Ve­lo Club Abbiate­grasso, e rimasi affascinato. Dopo un ti­ra e molla coi miei genitori, li convinsi nel giro di qualche settimana a far provare anche me: ricevetti bicicletta, ma­glia, pantaloncini e feci in tempo a fare qualche gara da G2, poi l’anno successivo iniziai l’anno da G3 e via di seguito. Così cominciò tutto, dal VC Abbiategrasso».

Come si è svolto il resto della tua trafila giovanile?
«Ho corso con loro fino ai sedici anni. In tutto questo continuai a giocare a calcio fino a Esordiente, poi gli impegni e la scuola iniziavano ad accavallarsi e tra i due sport scelsi il ciclismo. Feci secondo anno Allievo e biennio Juniores nella Busto Garolfo, fino a passare Under 23 nella Viris Ma­serati Vi­gevano: tre anni lì, poi 2018 in Po­lartec Kometa (così si chiamava al­lora la struttura di Basso e Contador, era una Continental)».

Se a calcio difendevi, in bici hai imparato a finalizzare!
«Ammetto che mi piacerebbe essere un po’ più scalatore e soffrire meno in salita, ma è una cosa che non si sceglie quindi va benissimo così».

Permettimi una citazione da Harry Pot­ter: così come non è il mago a scegliere la bacchetta ma la bacchetta a scegliere il mago, così non è il ciclista a scegliere le sue caratteristiche, ma le caratteristiche a scegliere il ciclista?
«Proprio così, fin da bambino si capiva che sarei stato un velocista».

Sei stato un vincente fin da subito?
«Non direi, c’era quasi sempre qualcuno più forte di me o che comunque fa­ceva più risultati: non sono mai stato uno da quindici vittorie a stagione, per intenderci. Era così anche nei dilettanti, dove avevo davanti a me Luca Pa­cio­ni, Damiano e Imerio Cima... Poi però le cose possono cambiare con il grande salto nel professionismo ed eventualmente nel World Tour».

Qual è stata la tua svolta?
«Il campionato italiano Under 23 vinto in Puglia nel 2017, in volata su Sartori, Radice, Lonardi... Quello mi aprì le porte della Polartec Kometa e mi mise già in orbita Trek Segafredo».

Un’evoluzione in senso internazionale che mantiene però una bella matrice lombarda: Ivan Basso, Luca Guercilena, oggi in Q36.5 hai tra i direttori sportivi Gabriele Missaglia...
«A tal proposito, fa piacere vedere che una provincia ostile ai ciclisti, tra traffico e poca altura, come quella di Mila­no, riesca comunque a contribuire al movimento: citerei anche un ragazzo come Stefano Oldani, passato subito dopo di me dal team di Basso e Conta­dor e immediatamente approdato al World Tour o successivamente An­drea Piccolo».

Ad agosto 2018 in Polartec Kometa spacchi tutto: vittorie di tappa, in rapida successione, alla Vuelta Burgos e al Giro d’Ungheria.
«Feci contenti pure gli sponsor della squadra, spagnola e con diversi legami con l’Ungheria. In particolare a Bur­gos eravamo una Continental in mezzo ai giganti, piazzare il primo successo “professionistico” al cospetto di una Movistar o una Sky fu speciale!».

Un bel viatico per il passaggio in Trek Segafredo: 2019 di assestamento, poi inizi il 2020 con un’altalena repentina di gioie e dolori. Nell’arco di dieci giorni tra fine gennaio e inizio febbraio, infatti, porti a casa due prove della Chal­lenge Mallorca battendo in en­trambe le occasioni Pascal Acker­mann, poi cadi rovinosamente all’Etoile de Besseges e ti rompi l’acetabolo del femore. Sei mesi di stop e interruzione di un percorso di crescita...
«Dal gradino più alto del podio al letto d’ospedale, evidentemente doveva an­dare così. Nei primi tempi dopo l’accaduto c’è la paura per la propria salute e la carriera. In breve tempo ho capito che per fortuna sarei rientrato a correre, ma non è facile incassare il colpo a livello psicologico: ritrovarti dall’osservare bei risultati e dirti “Magari questa è la mia stagione” al chiederti quando rientrerai e se riuscirai a tornare sui li­velli di prima. Il mostro con cui convivere, diciamo. Trovai il prezioso supporto della squadra, della famiglia e di tutte le persone che mi vogliono bene; fui operato da un gran chirurgo come Mario Ar­duini e assistito nella riabilitazione dal numero uno dei fisioterapisti, Fabrizio Borra. Ripresi ad allenarmi focalizzandomi su un solo obiettivo: tornare allo stesso livello che avevo prima di cadere. Al ritorno in gara ho dovuto chiaramente lottare anche con la paura di ricadere e rifarmi male, certi dolori sono difficili da rimuovere; ma una volta ripresa confidenza col gruppo e con le volate, la mentalità da atleta e la voglia di competere mi aiutarono a superare tutto. L’uni­ca “remora” che può essermi rimasta, un giusto insegnamento da quanto mi è accaduto, è che da allora non mi prendo rischi inutili a 70-80 chilometri dall’arrivo. Per il resto, nei finali recuperai ben presto la stessa cattiveria e la stessa grinta».

Pure la passione per il tuo lavoro è rimasta intatta?
«Nei momenti più difficili è più... difficile credere in quella passione. Quando sfoderi belle prestazioni è più facile far­lo, quando le cose sono andate male  ho scavato dentro di me e ho ritirato fuori il piccolo Matteo che a 7-8 an­ni si appassionava alle bici guardando la sua prima gara. Quella è l’essenza del perché sono ancora qua oggi a sprintare.».

Che sensazione fu il 21 marzo 2021 tornare alla vittoria, e farlo (per l’unica volta in carriera finora) sulle strade italiane, per la precisione fiorentine, della Per Sempre Alfredo?
«Senza nulla togliere a una corsa intitolata a un gigante del nostro ciclismo, e che sono onorato di aver “battez­zato” vincendo l’edizione inaugurale, devo ammettere che si trattava di una gara di livello medio-basso. Però con quello che avevo vissuto nell’annata precedente, dove il gruppo oltretutto era ripartito a velocità non doppia, di più, quel successo fu importante per ritrovare una certa fiducia e serenità in volata».

Perché guarire clinicamente e nelle motivazioni è un conto, ma poi ci vuole quell’ulteriore “clic” per rientrare per davvero al 100%.
«Esatto, quando si recupera da un brutto infortunio, all’inizio migliori tanto a vista d’occhio e magari rientri in tempi relativamente brevi alle corse. Ma come insegnano diversi casi anche illustri, molto meno scontato è quel 5% che fa la differenza tra il portare tranquillamente a termine le gare e poterle vincere. Nel mio caso è stato un processo parecchio lungo, passato da quella Per Sempre Alfredo e portato a compimento nel 2022».

Ovvero la tua quarta stagione nel World Tour, l’ultima in Trek Segafre­do: come la descriveresti?
«Innanzitutto, nello stesso periodo in cui due anni prima avevo battuto Ac­kermann per poi infortunarmi, riportai una vittoria di prestigio nella quarta tappa della Valenciana: per me era il segnale definitivo che ero tornato. Poi ho avuto alti e bassi, ma nel complesso ho un buon ricordo: un secondo posto al Giro di Sicilia e uno alla Route d’Occitanie, una vittoria al Giro di Gre­cia... La considero l’annata dove mi sono messo alle spalle le vicende del 2020».

Quando è entrata in scena la Q36.5?
«Ad agosto, quando si erano costituiti ufficialmente come società ed erano partiti in cerca di corridori per comporre il loro roster».

Avrai sicuramente avuto a che fare con l’ambassador e consulente della squadra Vincenzo Nibali, che oltretutto era stato tuo compagno in Trek Segafredo nel 2020 e nel 2021.
«Ho avuto la fortuna di correre insieme a uno dei più grandi campioni della storia, sono stato proprio felice di ri­trovarlo in questa sua riconversione post-ciclistica».

Cosa ti piace fare nei pochi momenti liberi che il tuo lavoro concede?
«Quando possibile cerco di viaggiare e scoprire luoghi nuovi non in corsa ma da turista. L’ultima vacanza vera e propria che ho fatto è stata due anni fa, con la mia ragazza Aurelie siamo stati dieci giorni a Creta: rimasi affascinato dalla bellezza di quell’isola, dall’accoglienza della gente e dalla cucina greca. Un aspetto positivo è che tendenzialmente possiamo permetterci i viaggi in periodi lontani dal turismo di massa, quindi te li godi di più».

Spesso i corridori sono fidanzati con colleghe, del resto non è facilissimo stare in­sieme a qualcuno che sta via così tanti giorni all’anno e i cui ritmi di vita sono così diversi da quelli delle “persone normali”. Invece la tua Aurelie è totalmente fuori dal mondo del ciclismo: come avete trovato il vostro equilibrio?
«Ormai stiamo insieme da cinque anni, ha imparato a conoscere la mia attività e mi ha visto diventare professionista. Non è semplice conciliare tutti i nostri impegni ma ci riusciamo bene: alla base di tutto c’è il rispetto per ciò che l’altro fa».

La Francia, che tra la caduta-Besseges e la vittoria-Isbergues è stata ciclisticamente croce e delizia, sotto altri aspetti per te è solo delizia!
«Infatti sono doppiamente contento di aver finalmente vinto anche in terra francese».

Altra curiosità extra-ciclismo: dato che giocavi a calcio, hai mantenuto una passione per questo sport e per che squadra tifi?
«Tifare è un parolone, simpatizzo per l’Inter. Peccato per la finale persa di Champions League a giugno, ma la vittoria a Isbergues è arrivata il giorno dopo il derby vinto 5-1!»
Torniamo al ciclismo: con quale idolo sei cresciuto?
«Potrei fare tanti nomi, ma la verità è che il mio vero idolo è... il ciclista in sé per sé! Un’ammirazione totale per questa figura, dal vincitore del Tour de France all’ultimo classificato».

La tua corsa dei sogni?
«La Milano-Sanremo e la Parigi-Rou­baix, e quest’anno in Q36.5 ho avuto l’opportunità di correrle entrambe. La Sanremo l’ho finita, la Roubaix no: mi sono ripromesso di tornarci un giorno».

Augurandoti di cuore di poterlo fare, ti inviato a una riflessione finale. Tu rappresenti doppiamente una razza in via d’estinzione: quella del velocista puro che menzionavamo in precedenza, in un’epoca di corridori sempre più completi e di ruote veloci sempre più resistenti; e quella del corridore che ha fatto tanta gavetta, addirittura quattro anni da dilettante in un’epoca di baby-fenomeni e passaggi-lampo al professionismo...
«Percorso simile a un mio corregionale coetaneo come Edoar­do Af­fini. Perso­nal­mente sono grato di aver compiuto la mia ma­tura­zione coi tempi giusti. Se ti chiami Remco Evenepoel forse è tut­to un po’ più semplice, e anche lì non è detto: il ciclismo ai massimi livelli non è un ambiente facile! L’espe­rien­­za tra Viris e Kometa mi ha reso non solo il corridore, ma l’uomo che sono. Certo, bisogna prendere atto della tendenza attuale, che non so se continuerà e co­me potrà evolversi in futuro. Di sicuro però mi dispiace vedere alcuni talenti che passano professionisti quando non sono ancora pronti, e non riescono a gestire la pressione e ad esprimere il loro potenziale».

da tuttoBICI di ottobre

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