Un anno fa, al Giro dell’Appennino, una corsa dura almeno come il Giro di Lombardia, arrivò diciannovesimo a 4’46” dal vincitore, il sudafricano Louis Meintjes. Davide Rebellin aveva 50 anni e 10 mesi. Felice e contento, con la stessa modestia e umiltà di sempre. Eppure era stata più di una vittoria. “Tin Tin” veniva da nove mesi di inattività e riabilitazione dopo una caduta al Memorial Pantani del settembre 2021 e le fratture di tibia e perone. Non voleva smettere perché era stata la sorte a obbligarlo, ma perché a decidere voleva essere lui. Anche se a fatica. Anche se a malincuore.
Il giorno prima Rebellin aveva regalato una prodezza meno agonistica e più umanitaria, meno pubblicata e più valorosa: una pedalata per la pace, organizzata sempre dall’Us Pontedecimo, in sostegno – pacifico – dell’Ucraina. Da Bolzaneto al Passo della Bocchetta, un’impennata fino al 22 per cento, una parete legata perfino a Fausto Coppi. Qui, stavolta, non esisteva ordine di arrivo, ma onore di partenza e voglia di partecipazione. Rebellin sapeva che la bicicletta è simbolo di pace, messaggero di libertà, strumento di solidarietà.
Domani, alla vigilia del Giro dell’Appennino e sempre organizzata dall’Us Pontedecimo, la pedalata si rifarà. Per la pace, per l’Ucraina, per la sicurezza sulle strade, anche per Rebellin. Una pedalata libera per chi cercherà di arrampicarsi su quei 10 chilometri di rampe e tornanti, libera per chi sa che è proprio la bicicletta a donare quella prima, indimenticabile, irrinunciabile, stordente sensazione di vento in faccia e indipendenza nell’anima, libera per chi crede che a questo mondo la libertà sia il primo diritto e la prima proprietà, senza dover diventare un comandamento o un obiettivo. Il raduno dalle 9 al centro commerciale L’Aquilone, il via alle 9.30, l’andatura secondo le proprie possibilità, fra i pacifisti a pedali ci saranno anche Edita Pucinskaite e Gibo Simoni, due amici del Giro dell’Appennino.
Rebellin sarebbe morto sei mesi più tardi, schiacciato da un camion, in una rotonda, di mattina. In bicicletta. Com’era già successo a Michele Scarponi. Un destino, quello dei ciclisti martiri della strada, che ogni giorno semina lutti inestinguibili e parole vane.