Italiano? Paolorossi. Il 1982, i Mondiali di calcio, Italia-Brasile 3-2. Segnò tutti e tre i gol azzurri. Quel giorno eravamo cinquanta milioni di Berruti che superava gli americani a Roma 1960, o di Gimondi che batteva Merckx al Montjuich 1973.
Italiano? Paolorossi. Aveva le ginocchia a pezzi, nelle foto rituali prima della partita non riusciva mai a piegarle del tutto, aveva anche la fedina penale compromessa, si era forse piegato – lì sì – alla tentazione delle scommesse e dei trucchi, o forse era solo stato tirato dentro, ma aveva comunque pagato e ricominciato a fare quello che sapeva.
Italiano? Paolorossi. Centravanti, non ne aveva fisico né doti. Non si sa neanche quale fosse – come si dice – il suo piede buono. Non era buono neanche di testa. Non calciava rigori né punizioni. Però la buttava dentro. Di riffa o di raffa, di rimbalzo o di deviazione. In area era un demonio. O un angelo.
Italiano? Paolorossi. Da allora ci chiamarono tutti così. In Grecia e in Egitto, in Svezia e in Portogallo, in Messico e in Thailandia. Non Leonardodavinci o Galileogalilei, ma Paolorossi. Eravamo tutti Paolorossi perché Paolorossi era italiano e aveva tutto dell’italiano, la fragilità fisica e – forse, almeno per un attimo – quella morale, ma anche l’estro, la scaltrezza, la sveltezza, le risorse nascoste e invece appartenenti da sempre, da che mondo è mondo, da che Italia è Italia, da che calcio è calcio, di quell’arte che è il sopravvivere, l’improvvisare, l’arrangiarsi. E degli italiani possedeva e dimostrava il meglio: la leggerezza e il sorriso.
Italiano? Paolorossi. Tutto attaccato, nome e cognome, il nome e il cognome più comuni, un modo di dire, di chiamarsi, di confondersi. Nelle nostre vite sono apparse, sfilate, incontrate e intromesse squadre di Paolorossi, ma lui era l’unico Paolorossi individuabile, identificabile, indimenticabile, il Paolorossi.
Italiano? Paolorossi. Stavolta, a impadronirsi e distruggere i polmoni, non è stato il Covid-19, ma un tumore. Cambia poco, cambia niente. Il 2020 si è trasformato in un funerale cantato e in un’orazione funebre lunghi dodici mesi, i giornali in pozzi di necrologi e paludi di coccodrilli. Queste righe non volevano esserlo. Erano nate solo come biglietto di viaggio, come lettera di ringraziamento, come un debito di felicità. Inestinguibile.