Sono totalmente d’accordo con Carmine Castellano, il glorioso patron di tanti bei Giri: la lugubre giornata di Morbegno 2020 non deve essere dimenticata. Né in fretta, né a gioco lungo, né mai. Dimenticare, anzi rimuovere sbrigativamente nascondendo tutto sotto il tappeto, sarebbe un errore ugualmente grave. Dobbiamo farcene una ragione: la rivolta di quel giorno resta un sinistro precedente, altro che pagina nera da voltare al più presto. E allora è meglio ricordarcela molto bene, a lungo, sempre. Perché mai il Giro aveva subito uno sfregio simile. E mai più dovrà riceverne.
Saltiamo pure tutte le ragioni contro o a favore. La protesta in sé, a bocce ferme, non interessa più. Da mandare a memoria sono i tempi, i modi, gli atteggiamenti. Quelli restano, quelli rischiano di riemergere alla prossima occasione, lanciando nuove mattonate sull’instabile equilibrio del ciclismo moderno.
Tanto per cominciare, di quel giorno io salverei soltanto Adam Hansen, il così definito caporivolta, l’agit-prop che ha scatenato il finimondo. Voglio dirlo apertamente, a costo di prendermi metà dei pomodori che s’è preso lui: lo trovo comunque molto rispettabile. Non sto a farla lunga: un uomo può sbagliare, può imbarcarsi in imprese farlocche, ma se ci mette la faccia, se agisce in prima persona, senza comodi schermi e facili scaricabarili, quell’uomo comunque io lo rispetto. A prescindere, come diceva Totò. Mille volte meglio un nemico leale, identificabile, alla luce del sole, che un nemico viscido, sfuggente, vigliacco. Mille volte meglio.
Detto questo, ancora oggi sono convinto che Hansen abbia dato il via a un’iniziativa farneticante. Se il problema sollevato non rientra nel protocollo Uci, che giustamente prevede le fermate delle gare, deve valere sempre e solo una regola: chi non se la sente, chi non ce la fa, si ritira. Punto. Se salta questo comandamento, salta l’intera religione. Se saltano questi fondamentali costituzionali, si arriva dritti al percorso personalizzato, improvvisato sui due piedi. Si va quando, come, dove pare agli umori del gruppo. Chiunque è in grado di capire: non funziona. Non può funzionare. E se qualcuno si alza una mattina in vena di ricatti, caro direttore Vegni, non si comincia nemmeno la trattativa. Trattare è già cedere. La risposta è una sola: ci si vede sulla linea del via. Chi c’è, c’è, chi non c’è si rechi al più vicino aeroporto. Il ciclismo non si piega alle lune di nessuno, tanto meno improvvisate sui due piedi, senza i margini per fare le cose come si deve. Punto e a capo.
A capo, nel nuovo capoverso, ci deve per forza stare però la questione forse più desolante di tutte, se possibile anche più desolante dello stesso sfregio alla tappa e al Giro intero: quel gruppo in coda agli Hansen, a testa bassa, senza sapere perché, o senza il coraggio minimo per prendere le distanze. Pecoroni di un gregge senza bussola, capaci solo di andare dove ordina il capobastone.
Nessuno può andare orgoglioso di quel giorno. Non quelli che si sono adeguati “per senso di appartenenza alla categoria”, perché comunque quando la categoria va a buttarsi nel burrone, è lecito anche fermarsi un passo prima. Ma ancora peggio, molto peggio, ne escono quelli che addirittura dicono - sinceramente o ipocritamente - “non ne sapevo niente, non ho capito perché”, però puntualmente si sono accodati al branco. Non ho nessun dubbio: mille volte più rispettabili gli Hansen, di questi qui. Troppo facile nascondersi sempre dietro al paravento del non so niente, ma mi adeguo. E qui siamo a un problema enorme, non solo del ciclismo, neppure nuovo, in fondo lo stesso che già si vedeva nel Ventennio, quando folle enormi stavano sotto al balcone, salvo poi non trovare più un fascista a guerra finita, esclusi i fedelissimi a schiena dritta e a petto in fuori. Restando alle cose del ciclismo, parlo dello squallido costume per cui alla fine non si sa mai chi e perché abbia compiuto una certa azione, in un festival di scaricabarile e di gente che si nasconde da mettere tristezza.
Volendo cogliere un insegnamento dalla turpe giornata di Morbegno, io coglierei proprio questo. Sarebbe l’occasione giusta perchè l’Associazione dei corridori, ma in fondo anche gli stessi manager delle squadre, istituissero dei corsi di aggiornamento non solo sui watt e sull’alimentazione, ma anche su quella forza aggiunta che è la responsabilità. Dice niente questa parola? Io non so se i motivatori parlino di questo ai ragazzi, non so neppure se ne siano all’altezza. Ma è ora che assieme all’atleta cresca anche l’uomo, che oltre ai muscoli cresca anche lo spirito, perché poi ci si ritrovi ad affrontare le questioni - giuste o sbagliate non importa - con il minimo sindacale di partecipazione attiva. E di semplice coraggio. Stare sempre nel branco è certo più comodo, ma è anche infinitamente più umiliante. Nel giorno in cui crolla tutto, non se ne può uscire dicendo io non so niente, non ho sentito niente, non ho visto niente. Bisogna alzare la testa. Bisogna usarla. Altrimenti poi è inutile partire con i piagnistei e i vittimismi. E qui chiudo facendo un passo indietro. Meglio lasciare la scena a una frase di Seneca, che sugli uomini la sapeva lunga: chi striscia tutta la vita, non può lamentarsi se prima o poi viene schiacciato.
da tuttoBICI di novembre