“Pesce pilota” o “l’ultimo uomo del treno”. Ognuno lo può definire come vuole, la risposta però è una sola, se si vuole cercare “l’indispensabile” per lanciare alla vittoria il velocista di turno, bisogna fare il nome di Fabio Sabatini (approdato da questa stagione alla francese Cofidis seguendo il capitano Elia Viviani). Toscano di Pescia dove è nato il 18 febbraio del 1985, residente a Montecatini con la compagna Serena, il primo figlio Jacopo di 8 anni (papà Fabio l’ha già messo sulla bici, ma il figlioletto ha risposto con queste testuali parole: “babbo, corri te in bici!”) e il secondogenito Edoardo di appena tre mesi. Sabatini è professionista dal 2006 e in questo “maledetto” 2020 si sta sciroppando la quindicesima stagione tra i prof: per lui al momento 14 giorni di corse per oltre 2100 km percorsi tra Australia, Spagna e Portogallo. Poi il Covid-19 ha stravolto tutto e tutti e quindi anche per il toscano è partita la quarantena e tutto quello che ne è conseguito. Adesso sembra sempre più vicino il momento in cui finalmente si rialzerà il sipario anche sulle corse di ciclismo: avverrà l’1 agosto proprio in Toscana con le Strade Bianche e in un centinaio di giorni si dipanerà tutto il calendario possibile e immaginabile con le Classiche, Grandi Giri e tutto il resto.
Fabio sembra proprio che tra poco più di un mese il gruppo tornerà a muoversi…
«Sarà una cosa nuova per tutti, nessuno di noi è mai passato da una situazione del genere. Si riparte e la prima corsa è l’1 di agosto, sembra incredibile ma è la realtà. Vedo un gruppo dove tutti saranno molto accaniti, dove tutti vorranno emergere anche perché non c’è tempo, non è una stagione normale. Dal mio punto di vista ci saranno diverse situazioni: ci sono tanti corridori che hanno bisogno di trovare la condizione correndo e invece con questo calendario c’è poco tempo per farlo, bisognerà trovare il modo giusto e adeguato per prepararsi alle corse. E poi iniziare con questo caldo neppure il tuo fisico sa cosa può darti: sarà davvero tutta da vedere”.
Qual è il tuo calendario per la ripresa?
«Io riparto dalla Francia, in Occitania dall’1 al 4 agosto (Route d’Occitanie-La Dépêche du Midi che fa parte del circuito UCI Europe Tour, ndr), poi sarò al via della Milano-Sanremo l’8 agosto, il 25 correrò a Plouay al Bretagne Classic Ouest-Francia (gara dell’UCI World Tour, ndr) prima dell’inizio del Tour de France (dal 29 agosto al 20 settembre, ndr). Questo è il programma che ho al momento e che seguirà quello di Viviani, per il Giro d’Italia che partirà ad ottobre decideremo più avanti».
In questi 15 anni di professionismo, iniziati nel 2006 al Team Milram, hai catapultato alla vittoria molti grandi velocisti. Te la senti di definire ognuno di loro?
«Sì, ci provo volentieri. Partiamo dai primi con i quali ho corso. Petacchi è il mio secondo fratello e con questo ho detto tutto. Zabel, grandissimo professionista da prendere come esempio. Bennati, grande testa e anche lui forte velocista prima di inventarsi in un altro ruolo. Viviani, l’ho avuto in squadra al suo esordio tra i professionisti nel 2010 e si vedeva che era già scaltro, arrivava dalla pista e quel lavoro sapeva sfruttarlo nelle volate. Poi negli anni si è potenziato molto e sappiamo tutti quello che è diventato. Sagan, beh bastava metterlo in buona posizione nello sprint poi faceva tutto da solo. Non si fidava ciecamente di un treno, ed è una dote non una critica, lui salta facile da una ruota all’altra… Cavendish, una scheggia! Ci ho corso solo una stagione e non ho avuto un gran rapporto diretto in corsa, siamo amici in quanto lui ha casa a Quarrata ad una mezz'oretta da casa mia. Gaviria, mi ha impressionato alla Parigi-Tours del 2016 quando è partito agli 800 metri e ha vinto. Lui è un velocista che ha molto bisogno del treno. Kittel, penso il velocista più potente al mondo del dopo Cipollini».
Ultimo uomo del treno, sei stato definito a volte di “lusso”. Un ruolo importante che ti soddisfa appieno?
«Sì. Mi sono specializzato in questo ruolo alla Quick Step e negli ultimi anni ho lanciato le volate di corridori del calibro di Kittel e Viviani. Significa che hanno sempre creduto in me e anche la squadra ha fatto altrettanto: se non hai questa fiducia non riesci a farlo, non diventi per caso l’ultimo uomo».
Qual è il trucco?
«Sapere trovare la soluzione giusta in un momento così rapido e difficile come è la volata. Ai 500 metri devi preparare al meglio il tuo velocista per lanciarlo ai 200 meri: tante volte hai un treno fortissimo, ma basta fare un piccolo errore e non si vince. Il trucco è saper gestire la situazione in qualsiasi momento, soprattutto nella difficoltà: se davanti a te c’è una sbandata o succedono altre cose normali negli sprint, devi essere lesto ad evitare il problema. In pratica nella bagarre finale devi avere dieci occhi…».
Nessuna vittoria da professionista, escludendo quelle nelle crono a squadre e quella nella cronocoppia a Borgomanero nel Novarese con Fabio Velo nel 2018. Eppure tra i risultati spicca anche un 13° posto nel 2012 al Giro delle Fiandre, non una “corsetta”. Hai qualche rimpianto o va bene così?
«Sono passato tra i professionisti con persone che mi hanno voluto per fare il treno, quando ho esordito ero con Petacchi e Zabel. Sono sempre stato veloce, ricordo che nel 2010 al Giro d’Italia avevo il compito di occuparmi fino ai 3 km dal traguardo di Ivan Basso che era il leader della squadra per la classifica e che poi ha conquistato la maglia rosa, poi ero libero e potevo fare le volate. Ho sfiorato la vittoria arrivando una volta secondo e una terzo. Detto questo credo di aver avuto la giusta intuizione per specializzarmi nel ruolo di ultimo uomo e devo dire che è stata azzeccata. Quindi nessun rimpianto».
Una sola maglia azzurra della Nazionale ai Mondiali, e due volte agli Europei. Qualche rimpianto?
«Diciamo che oltre al mondiale di Doha in Qatar dove ho corso, c’era forse solo un altro mondiale piatto, adatto ai velocisti, quello vinto da Cavendish in Danimarca nel 2011 al quale non c’ero. Sono le scelte dei commissari tecnici, magari non le condividi, ma le accetti. Il rammarico semmai è di chi non mi ha portato, non certo mio».
Quindici anni di professionismo, più tutta la trafila giovanile, una vita in sella. Fabio Sabatini ha pensato, o sta pensando, a cosa “farà da grande”? Ti piacerebbe restare nel ciclismo dopo il ritiro?
«Ho sempre detto che quando vedo che faccio perdere le volate ad Elia e non sono più il Saba di prima, attacco la bici al chiodo! Finché le gambe reggono andiamo avanti. Sul futuro non ci penso ancora, non nascondo che mi piacerebbe restare nel mondo del ciclismo. Però amo la mia famiglia, ho due figli ancora molto piccoli e mi piacerebbe stare più tempo con tutti loro: scendere dalla bici e fare subito, ad esempio, il direttore sportivo e stare in giro per il mondo 150 o più giorni all’anno, al momento non fa per me. Magari più avanti, qualcosa in ballo c’è ad essere sincero, ma è prematuro parlarne».
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