C’era una volta un ciclista che riusciva ad arrivare al traguardo sempre da solo… Al primo posto? Macchè. All’ultimo. E, pensate un po’, ne era ben felice.
Provate a raccontare questa storia a un bambino, all’inizio rimarrà perplesso. A nessuno piace perdere, men che meno ai più piccoli che al contrario vorrebbero vincere sempre e comunque. Capite bene allora quale diffidenza possa generare d’istinto la vicenda di un corridore che arrivava – e faceva di tutto per arrivare – sempre in coda al gruppo.
Eppure ci vuole proprio la semplicità dei bambini per accostarsi all’epopea di Luigi Malabrocca, il più titolato tra i “perdenti” di professione, l’unico in grado di entrare per due volte nell’albo d’oro della leggendaria maglia nera, quella che il Giro d’Italia assegnava all’ultimo classificato.
A cento anni dalla nascita (il 22 giugno a Tortona, la città dove 60 anni fa morì il suo amico e conterraneo Fausto Coppi) non c’è nulla di meglio che ripercorrere le sue gesta con la splendida versione a fumetti firmata e disegnata da Roberto Lauciello Malabrocca. Un uomo solo… al fondo e pubblicata da una casa editrice specializzata nel genere come ReNoir Comics.
Se già il suo cognome si presta bene a un’allegra filastrocca, le scorribande di Malabrocca tra nuvole di fumetti non fanno che accrescere il tono fiabesco della sua vicenda sportiva e umana che si è conclusa nel 2006 a Garlasco. Basta leggere l’incipit: «12 giugno 1949. È sera in Pianura Padana. I suoni della campagna si smorzano… ». Cominciano così le avventure del nostro eroe sorpreso da un contadino armato di forcone a riposarsi ben nascosto con la bici in un fienile. Una scena capitata chissà quante volte in carriera al «Luisìn» o «el Cinès» (il “cinese”, per via dei suoi curiosi occhi a mandorla). Al punto che perfino nei casolari di campagna finivano per riconoscerlo e lo invitavano a sedersi a tavola con loro. Il tutto, a tappa in corso. Quando era sicuro poi che il resto del gruppo aveva ormai tagliato il traguardo allora si decideva a farlo anche lui.
Una sosta al bar, un’altra all’osteria… Una finta foratura o un guasto meccanico causato ad hoc… E via, ma adagio, alla ricerca di un fosso o un fienile dove nascondersi meglio. Ogni trucco era buono per attardarsi e conquistare l’agognato ultimo posto che insieme alla maglia nera fruttava premi in denaro, oltre a salumi, formaggi, olio e altro ben di Dio elargito da sponsor e appassionati. Sprintava solo per traguardi intermedi in cui c’era da portare a casa qualcosa. L’unico tempo da battere era quello del tempo massimo per concludere la tappa e scongiurare la squalifica. Fu così che Malabrocca, se pur dall’altro lato della classifica, riuscì a conquistare la stessa popolarità di Bartali e Coppi, i campionissimi del tem- po. «Era un genio, il Luisìn – scrive Marco Pastonesi in una divertita prefazione – Quando capì, e furbo com’era, ci mise pochissimo, che Bartali e Coppi si sarebbero spartiti i premi destinati al vincitore, e sapendo che dal secondo in poi nessuno sarebbe entrato nella storia né passato dalla cassa si impegnò ad arrivare ultimo. Perché l’ultimo è il più fragile, debole, povero, vulnerabile, sfortunato, dunque il più umano, e tutti, ma proprio tutti, rischiano di commuo-versi, intenerirsi, impietosirsi fino a soccorrerlo, sostenerlo, aiutarlo, perché in lui si specchiano, si riflettono, si identificano».
Siamo dunque di fronte al ritratto non certo di un santino. Ma di un uomo di cui si possono comprendere bene tutte le debolezze. Ultimo di sette fratelli, due erano morti in guerra, uno era emigrato in Ameri- ca e un altro in Francia. E la terribile “spagnola” era stata fatale a due sorelle. Papà ferroviere e mamma casalinga, Malabrocca aveva necessità di portare qualche soldo a casa. La stessa corsa all’ultimo posto era finalizzata a guadagnare il pane e far felice la sua Ninfa, l’adorata moglie. Anche perché non era affatto un brocco: vinse 138 gare, di cui 15 da professionista, si tolse non poche soddisfazioni soprattutto all’estero andando a vincere la Parigi– Nantes e meritandosi anche la celebrazione dell’ Équipe: “La lanterna del Giro illumina Parigi” (al Tour, l’ultimo in classifica si chiama lanterne rouge).
Ma il suo palmarés viene celebrato soprattutto per la doppietta consecutiva in maglia nera al Giro (1946– 1947), una maglia in voga dal 1946 al 1951 ma poi abolita per le proteste degli stessi corridori che ne lamentavano indecorosi comportamenti antisportivi. Allo stesso Malabrocca andò bene fino a quando nel 1949 fu vittima del suo stesso gioco: aspettò troppo tempo e i giudici, spazientiti, andarono via assegnando la maglia nera all’acerrimo rivale dei bassifondi delle classifiche: Sante Carollo. E dunque come nei migliori apologhi di Esopo o Fedro possiamo anche trarne un insegnamento. Che cosa rimase a Malabrocca di quelle fughe al contrario? Non certo i mezzucci per spuntarla, ma l’amicizia intrecciata nei casolari, la generosità della gente che arrivò a mettergli in braccio perfino un agnello in dono. Anche perché nel nostro percorso può capitare che ci venga prima o poi presentato il conto per sotterfugi e furbizie. E comunque non ci serviranno certo per ottenere un premio eterno o il buon ricordo presso i posteri.
Tanto più che vincere alla fine non è tutto. Anzi, in questa società competitiva e arrivista, il ciclismo e lo sport in generale sono un mezzo decisivo non tanto per primeggiare ma per imparare ad accettare le sconfitte. Si può perdere e fallire nel corso dell’esistenza, e anche arrivare ultimi. Ma restano i legami che abbiamo creato, perché «alla sera della vita – diceva Giovanni della Croce – ciò che conta è aver amato». Spendersi per gli altri e per chi ci ha introdotto in questa fiaba senza fine, ecco la gara da vincere. Questa sì, a qualunque costo.
IL LIBRO
Roberto Lauciello
Malabrocca, un uomo solo...al fondo
ReNoir Comics. Pagine 82. Euro 14 ,90
da Avvenire a firma di Antonio Giuliano
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