Domenica 29 marzo, avrebbe dovuto essere il giorno della Gand-Wevelgem, della tappa conclusiva della Volta a Catalunya e della Settimana Coppi&Bartali e del Gp Cholet Pays de Loire, solo per stare alle corse più importanti del calendario professionistico.
Invece tutto tace, tutto è fermo, le giornate sono scandite solo dai vari appuntamenti per pedalate comuni virtuali, organizzate, sfruttando le moderne tecnologie, per fini benefici o anche semplicemente ludici.
Ma di ciclismo c’è sempre voglia e l’occasione è buona, allora, per fare una chiacchierata con Fabio Perego e concludere l’ampio spazio dedicato su questo numero di tuttoBICI ai mondiali su pista con l’opinione di un esperto.
Perego è vicepresidente vicario del Comitato Regionale Lombardo della FCI e presidente del Consorzio Pista di Dalmine, nonché numero uno della SMO, società che negli ultimi quindici anni ha organizzato eventi di ogni livello e di ogni specialità, con una particolare predilezione proprio per la pista. Non solo, Fabio ha seguito per tuttobiciweb - come già aveva fatto in passato - i campionati del mondo di Berlino e può aiutarci a capire quanto è successo e ad entrare nelle sfumature del bilancio azzurro.
Un bilancio di assoluto rilievo, sei d’accordo?
«Sicuramente sì e lo dico guardando più alle prestazioni che al medagliere. Il quartetto è l’esempio emblematico del discorso: pur essendo arrivato a Berlino con qualche difficoltà - vedi l’assenza dell’infortunato Bertazzo e i problemi influenzali di Plebani - Marco Villa è riuscito a portare i suoi ragazzi ad un livello altissimo, inserendo un fenomeno nuovo come Milan. Grande merito a Marco Villa che lo ha scoperto, ma anche ai suoi tecnici che, prima tra gli junior e oggi da Under 23, lo hanno portato in pista. Non è un dato irrilevante, alla luce del fatto che, con la chiusura del velodromo di Montichiari, il bacino si è ulteriormente ristretto».
Il quartetto ci ha fatto letteralmente sognare.
«Gli azzurri hanno pedalato su tempi straordinari, molto vicino ai fenomeni danesi. La semifinale Italia-Danimarca è stata la vera finale del torneo e ha dato la versa dimensione del valore della formazione azzurra».
Danesi irraggiungibili?
«In questo momento sono un passo avanti perché lavorano con la stessa formazione da anni e hanno un team super specializzato a loro didposizione. Pensate che durante i mondiali, parte dello staff era a Tokyo per studiare la pista olimpica, il legno, il velodromo, tutto. E la Danimarca in galleria del vento porta tutto il quartetto perché la posizione aerodinamica del singolo non è detto che sia ideale anche quando si corre in quattro. E aggiungo che quest’anno, pur avendo a disposizione un nuovo modello di biciclette, alla fine hanno optato per quelle dell’anno scorso, giudicate più performanti su una pista come quella di Berlino».
Quel che è riuscito a Villa, non è accaduto per il ct Salvoldi in campo femminile.
«Anche il trenino femminile è arrivato a Berlino con Guazzini fuori uso, con Balsamo e Cavalli a mezzo servizio e alla fine è stato prezioso il contributo della meno giovane del gruppo, Silvia Valsecchi, che ha pedalato forte al fianco di Alzini e Paternoster».
Qual è stato il risultato più sorprendende in chiave azzurra?
«Non aspettatevi che dica l’exploit di Filippo Ganna, che è stato grandissimo. Secondo me la sorpresa più grande è stata quella di Miriam Vece (nella foto). In valore assoluto, la sua crescita è stata straordinaria e la scelta di andare a vivere ad Aigle e allenarsi a tempo pieno sulla pista del Centro Mondiale del Ciclismo ha pagato. Non è facile a 22 anni piantare baracca e burattini per andare all’estero e scegliere di fare la velocista, Miriam lo ha fatto ed è stata ripagata da risultati straordinari sia nel torneo della velocità, quanto a tempi, che nei 500 metri dove ha colto la medaglia di bronzo. Certo, è ancora inesperta e lo si è visto negli ottavi di finale contro la navigata lituana Krupeckaite: ha montato un rapporto troppo leggero, l’avversaria lo ha notato ed è partita con una volata lunghissima, Miriam l’ha raggiunta ma le è mancato proprio il rapporto per superarla, non le gambe».
In campo maschile i velocisti hanno un fisico pazzesco, è lo stesso anche tra le donne oppure una ragazza minuta come Miriam può emergere?
«Anche in campo femminile ci sono atlete dal fisico imponente ma al tempo stesso ci sono possibilità anche per cicliste più esplosive come Miriam. I tempi li ha, deve solo continuare a lavorare per affinare la tecnica e accrescere il suo bagaglio di esperienza».
Chi invece, seppur giovanissima, dimostra di essere ormai nell’olimpo della pista è Letizia Paternoster.
«Letizia è un’agonista straordinaria, quando attacca il numero sulla schiena si trasforma, scende in pista senza paura e ha dimostrato di poter competere ai massimi livelli in tutte le specialità che affronta. Il suo argento nell’omnium, nella sfida che l’ha opposta a campionesse navigate, è stato eccezionale e così il bronzo che ha conquistato insieme ad Elisa Balsamo nel madison. Letizia è senza dubbio una carta preziosa per l’Italia in vista dei Giochi di Tokyo e non solo».
La domanda è inevitabile: come si può dare continuità a questo movimento?
«La risposta è semplice e complessa al tempo stesso: bisogna puntare sempre di più di Centri di Avviamento alla Pista, perché è da lì che arrivano i Viviani (Pescantina), i Consonni (Dalmine), i Ganna (Torino) e via dicendo. Occorre una rete che segnali i corridori con attitudine quando sono Esordienti o Allievi, poi sarà compito di Marco Villa e della struttura farli crescere. Occorre che i tecnici dei singoli centri lavorino in simbiosi con il Centro Studi Federale, occorre avvicinare i bambini e i ragazzini alla pista e insegnare loro i fondamentali di questa disciplina, in maniera che quando entrano nel giro della Nazionale siano pronti per crescere e spiccare il volo. Sarebbe importante portare finalmente a compimento il “Progetto Centri Pilota” con 5-6 centri destinati a diventare il punto di riferimento dell’attività sull’intero territorio nazionale».
Un’ultima domanda: l’Italia è stata per anni la patria della velocità, ma torneremo mai ad avere un grande velocista?
«Sarà molto molto dura. Ed il problema, per nazioni come Italia e Belgio, sta nella loro cultura ciclistica. Grande cultura, immensa ma prettamente stradaiola. Per costruire un velocista, bisogna cominciare a lavorare a 15-16 anni., ma quale allievo che vince 8-10 corse su strada decide di dedicarsi solo alla velocità su pista? Quale società è disposta ad investire in tal senso? In Olanda e Francia, per esempio, vanno a scovare tra i praticanti della BMX per cercare talenti e creare un bacino di atleti dai quali emergono i loro velocisti. Da noi è tutto diverso, questione di cultura...».
da tuttoBICI di aprile
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