Maiorca è stato l’uomo delle profondità impossibili e degli abissi più scuri, ma è anche il luogo dove emergere e respirare a pieni polmoni la gioia di un’impresa. Enzo Maiorca è stato una leggenda delle immersioni in apnea, l’uomo che sapeva volare verso il centro della terra, ma Maiorca è anche un’Isola delle Baleari al centro del Mediterraneo, dove Matteo Moschetti ha per due volte trattenuto il fiato prima di gridare la propria gioia in due occasioni due.
Un inizio di stagione con il botto, prima dell’ennesimo crack, sulle strade di Francia (terza tappa dell’Etoile de Besseges): frattura del bacino. E dire che questa stagione aveva avuto un inizio più che incoraggiante per un ragazzo di soli 23 anni, cresciuto lentamente e senza ossessioni, ma pronto a spiccare il volo verso l’alto come ha fatto a Maiorca sfrecciando veloce sul naso di Pascal Ackermann.
Lo intercettiamo telefonicamente di ritorno da Maiorca, prima di ripartire alla volta de l’Ètoile de Bessèges, che per il ragazzo di Robecco sul Naviglio segna l’ennesimo stop. In mezzo c’è Lione. In mezzo c’è Aurelie, una ragazza francese di Digione con la quale Matteo fa coppia da quasi due anni. Ora lei sta sostenendo uno stage lavorativo a Lione e Matteo, quando può, la raggiunge. Questa è una chiacchierata serena e spensierata con uno dei giovani più interessanti del panorama ciclistico nazionale avvenuta prima del brutto incidente. Ve la proponiamo come augurio di pronta guarigione, convinti che anche a voi possa far piacere conoscere un po’ di più questo ragazzo tutto da scoprire.
È un ragazzo tranquillo Matteo. Modi garbati e parole misurate, precise, per nulla buttate lì tanto per gradire. Ragazzo di testa, che si lascia andare piacevolmente al racconto, anche perché ha voglia di raccontarsi.
«Tanto Aurelie è al lavoro, sono qui da solo: mi fai compagnia…», dice prima di lasciarsi andare ad un fuoco di domande.
Sorpreso di questo inizio così bello e beneagurante?
«Devo dirti di no, perché in cuor mio ci contavo parecchio in una partenza così bella. Dopo tante vicissitudini (frattura dello scafoide al Giro d’Italia, con tanto di operazione, poi virus intestinale nel finale di stagione in Cina, ndr), avevo bisogno di tornare a galla dopo essere finito molto in basso, là dove si fatica anche a vedere la luce. Ne avevo la necessità fisica e mentale. Quella che mi sono lasciato alle spalle è stata una stagione molto complicata, anche se è stata utile».
Di utile ci sono state poi le vacanze.
«Anche. Riposo di tre settimane. La prima negli Stati Uniti per un “team building” alla Trek, poi due settimane a Lisbona a trovare un amico (Andrea Arini, ndr) che sta facendo l’Erasmus».
Quindi niente Aurelie…
«Doveva lavorare e allora ne ho approfittato per andare a vedere posti nuovi».
Come l’hai conosciuta?
«Avevo 15 anni e lei era venuta a trovare la mia amica Lucia a Robecco sul Naviglio per uno scambio culturale. Inizialmente è restata da lei per due settimane. Poi però ogni anno un giretto dalle nostre parti lo ha sempre fatto, e io mi sono sempre fatto vedere. Poco per volta ci siamo conosciuti: siamo assieme da poco meno di due anni, anche se qualcosa prima era successo, ma non è stato assolutamente facile gestire una relazione così da lontano. Diciamo che tutto è nato con assoluta calma e soprattutto senza fretta. Abbiamo lasciato che le cose andassero come dovevano andare».
Galeotta è stata Madrid.
«Era la fine del 2018, io avevo chiuso da poco la stagione agonistica e sono andato a trovarla in Spagna, dove stava facendo l’Erasmus: lì, alla Puerta del Sol, è nata la nostra storia».
Ama il ciclismo?
«Ama lo sport, ma di ciclismo sa poco. Segue me. Lei ha praticato basket e triathlon e qualche volta usciamo anche in bici assieme».
Tra di voi che lingua parlate?
«Lei parla benissimo l’italiano, ma da un annetto parliamo francese perché a me piace molto ed è bello conoscere qualche lingua in più. Anche alla Trek-Segafredo, dove la lingua è chiaramente l’inglese, adesso con parte del personale parlo il francese. Fa bene alla testa. E poi ho fatto felici i genitori di Aurelie che parlano solo francese».
Torniamo in Italia: nasci a Milano.
«Sì, all’ospedale Buzzi. Mamma Cristina (Facchini, ndr) ha 50 anni e lavora alla Coop di Settimo Milanese, reparto panetteria. Papà Francesco di anni ne ha 51 e fa l’autotrasportatore. Ha corso in bicicletta fino ai dilettanti, con la Darimec. Anche la mamma ha praticato per qualche anno lo sport del pedale, correndo con la maglia del Cavenago, e nonostante loro siano appassionati, hanno fatto di tutto per dissuadermi dal salire in sella ad una bicicletta».
Come mai?
«Giocavo a calcio nel Robecco e a loro piaceva. Forse volevano proteggermi dai pericoli, chissà. Io mi divertivo a giocare a pallone, ma non ne andavo pazzo. Difensore centrale o centrocampista: tanta corsa e poca tecnica. Un giorno però chiedo ai miei genitori di accompagnarmi a vedere una corsa di Simone, mio cugino, che correva in bicicletta col VS Abbiategrasso. Mi piace un sacco e li convinco a provare. Inizio a 8 anni (G3), anche se la prima vittoria arriva dopo un po’, al terzo anno, in una gara ad Abbiategrasso. Se vinco in volata? Forse, non ricordo. Ai risultati non ho mai dato tanto peso, anche perché a me interessava solo divertirmi, non certo vincere. Non ho mai avuto l’ossessione del risultato e per questa ragione fino ai 14 anni ho alternato il calcio al ciclismo. Per me lo sport era solo stare assieme, condividere una passione, imparare qualcosa di nuovo».
Cosa hai imparato in quegli anni?
«A perdere».
Dal VS Abbiategrasso alla SC Busto Garolfo.
«Faccio il secondo anno da allievo e i due da juniores. Due le vittorie tra gli junior. Poi passo dilettante alla Viris Vigevano: tre anni belli e importanti. Solo da questo momento in poi comincio a fare le cose più seriamente. Mi dico: se vali qualcosa devi farlo vedere. Una vittoria al primo anno; due al secondo: tre al terzo con l’italiano su strada. A fine del 2017 sono stagista alla Trek e il 2018 lo faccio con la maglia della Polartec-Kometa di Alberto Contador e Ivan Basso. Sono in un team Continental, ma è già semi-professionismo e con quei due monumenti del ciclismo mondiale non si può che imparare. Vinco otto gare, di cui una di categoria 2.1 al Giro dell’Ungheria e l’altra di HC alla Vuelta Burgos (8 agosto 2018, ndr): vittorie di peso».
Alle quali dai il giusto peso.
«Vinco tra i dilettanti, ma queste due vittorie sono con buonissimi professionisti: quindi hanno un coefficiente di difficoltà molto elevato».
L’anno scorso il tuo primo Giro d’Italia.
«Esperienza bellissima, che si è conclusa purtroppo per me troppo presto (decima tappa, caduta con frattura, ndr). Ad Orbetello un bel 4° posto alle spalle di un Viviani poi declassato (vittoria di Gaviria, ndr)».
Dopo le tue due volate maiorchine su Ackermann, cosa ti ha detto Luca Guercilena, il tuo team manager?
«Era in Australia con la squadra e mi ha scritto: è bello risvegliarsi con queste belle notizie, quasi quasi resto qui. Io gli ho risposto: se il Giro di Maiorca dura in eterno…».
Siete vicini di casa…
«Abitiamo a due chilometri di distanza, ma ci vediamo pochissimo: siamo sempre in giro per il mondo».
Hai un campione del cuore?
«Francamente no, ho tanti corridori che stimo, ma non uno in particolare».
Ami mangiare?
«Purtroppo sì. Escluso i dolci, mangerei di tutto. Piatto preferito? Pasta alla carbonara o al pesto. Alternativa: spaghetti alla matriciana».
Vino?
«Poco, anche se mi piace, ma con moderazione».
Musica?
«Ascolto un po’ di tutto, in particolare Jovanotti. E poi adoro i Coldplay».
Cinema?
«Ci vado poco, ma ogni tanto capita. Con mia sorella Giorgia (ha 9 anni e ama nuotare e sciare, ndr) sono andato a vedere Pinocchio di Garrone».
Hai anche un fratello, Andrea, che corre in bici come te.
«Correva. Ha 18 anni e ha corso fino a pochi mesi fa per il team di Gianluca Bortolami, ma ha deciso di smettere».
Un sogno?
«Ne ho perlomeno due: Sanremo e Roubaix. La classica di primavera, purtroppo, non la correrò, la regina delle classiche forse. Però farò una bella fetta di campagna del nord».
Giro?
«Niente. La squadra sarà tutta per Vincenzo (Nibali, ndr), come è giusto che sia. Correrò la Tirreno e spero di fare qualcosa di buono. Ma la mia dovrà essere una stagione senza calcoli: dove mi si presenta l’occasione, io devo essere bravo a raccogliere».
È il colmo per un ragioniere: non fare calcoli.
«Per un ragioniere vero sì, ma io sono sempre stato bravo in italiano e storia e poco portato per la partita doppia. A questa ho preferito di gran lunga le volate».
da tuttoBICI di marzo
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