E’ dal momento stesso in cui Trentin ha perso tutto, un millimetro prima di vincere tutto, che non posso fare a meno di dire: povero Trentin. Lo so, non sono il solo. Ma io parlo per me, non per gli altri. E da quel momento superbo e dannato continuo a chiedermi come mi sentieri io, adesso, se fossi Trentin.
Andando parecchio a spanne, perché in certe situazioni bisogna solo immergersi, per vedere come reagisce davvero il nostro io, a spanne comunque sono sicuro che per almeno un paio d’ore dovrebbero tutti girarmi molto alla larga. Primi fra tutti quelli che vengono a darti la pacca sulla spalla e a dirti la parola giusta, che li fa sentire tanto umani: non importa, sei stato grande, il tuo secondo posto vale la vittoria. Ecco, proprio questi qui li vorrei per primi ranzare con una motofalciatrice, o esporre in piazza cosparsi di miele, in una zona infestata dai calabroni.
Vorrei starmene solo con la mia rabbia e la mia delusione, a ferita aperta. Bruciare a fuoco lento, deglutire ogni singolo sorso di fiele in totale solitudine, dicendomi ogni due minuti sei davvero un asino, sei un sublime asino, sei il più asino degli asini.
Poi, però, lascerei fare al tempo. Il tempo è galantuomo, ma soprattutto è il più bravo dei medici. Col passare delle ore, la mia sanguinosa autoflagellazione comincerebbe ad attenuarsi, lasciando un poco di spazio a quel balsamo universale che si chiama consolazione.
Sì, con l’aiuto di mia moglie, dei miei figli, dei miei amici veri, comincerei a dirmi che in fondo non è poi così da buttare, questa sconfitta. Riguarderei dentro di me l’intera giornata e in effetti, facendosi caso, con la calma sopraggiunta, riuscirei a intravedere anche del buono. Soprattutto, finirei per pormi la domanda risolutiva: meglio perdere anonimamente in fondo al gruppo, dalla mattina alla sera, senza neanche fiutare medaglie, o meglio vivere il sogno più grande per sette ore filate, o sei, o quante sono, fino all’ultimo secondo, proprio il secondo prima del traguardo?
Se ancora dessi ascolto alla delusione e alla rabbia, mi risponderei di sicuro maledetto in momento in cui ho pensato di puntare al Mondiale, sempre viva l’anonimato indolore dell’ultimo gregario, proprio non è possibile sopportare questo tormento di un oro sfumato quando già lo sentivo in mano, santo cielo, perché mi sono imbarcato in questa impresa, che cosa mi è saltato in mente, adesso sono condannato al rimpianto perenne, come in un girone dantesco dei più sadici.
Ma poi, ma poi. Ma poi mi direi: ho corso tutta la vita, sin da ragazzino, sognando di vincere il campionato del mondo. In certi momenti, in tante giornate, l’ho guardato col binocolo, l’ho considerato un frutto proibito, una faccenda riservata a gente speciale, fuori dalla mia portata. Invece, improvvisamente, in un’annata particolare e imprevista, io quel sogno l’ho vissuto in prima persona. Io protagonista e padrone, non comparsa ed escluso. Me lo sono costruito concretamente, l’ho preparato nei minimi dettagli, per arrivarci finalmente sul serio, a un millimetro, a un attimo, a un soffio.
Scuotendomi un po’ dalle riflessioni, se fossi Trentin, adesso, mi guarderei allo specchio e dopo tutto mi direi: sei un bell’asino, questo non si discute, ma è meglio un giorno da asino che cento da pecora. Io il Mondiale l’ho avuto in pugno, ci ho messo i piedi sopra, me lo sono guadagnato. Ce l’avevo indosso come un vestito da sposo. Non sono campione del mondo, ma sono all’altezza di un Mondiale: questo posso dirlo a testa alta. E allora, cara vita, ti ringrazio comunque. Non mi resta in mano niente, nessuno mi ricorderà nei secoli dei secoli, ma questo non conta: io, per me, mi tengo la vittoria più grande, questa emozione impronunciabile di un sogno realizzato.