Aveva visto l’inferno. “Ma stava in cima a una salita, non in fondo a una discesa. Ed era bianco, non buio e nero, ed era gelido, non bollente e infuocato”. L’8 giugno 1956, ventunesima e terzultima tappa del Giro d’Italia, 242 chilometri da Merano al Bondone, e l’inferno era proprio sul Bondone. “Nella bufera di neve stavo vicino a Gastone Nencini, il mio capitano, che era in classifica. Lo incitavo, lo incoraggiavo, lo pregavo, lo imploravo: ‘tieni duro’. Il suo piazzamento valeva soldi anche per noi gregari, finché, all’improvviso, Nencini cadde a terra, gli occhi rivoltati, il corpo immobile, e venne caricato su un’ambulanza. Stavo così male che sull’ambulanza volevo salirci anch’io, ma Rolly Marchi, il nostro direttore sportivo alla Chlorodont, mi urlò che ero rimasto l’unico della squadra ancora in corsa, e che dovevo arrivare al traguardo. Strinsi i denti, pregai la Madonna, pensai a casa, e ci arrivai, sul Bondone, sesto, con le mie gambe”.
Oggi, verso le 13, le sue gambe e il suo cuore non ce l’hanno più fatta. Antonio Uliana è morto nella sua Vittorio Veneto: il 16 luglio aveva compiuto 87 anni. Gli annali del ciclismo riassumono il suo pedalare in sette anni di professionismo (dal 1954 al 1960), in cinque squadre (Torpado, Leo-Chlorodont, Bottecchia, Molteni e Atala) e in tre vittorie da professionista (e da emigrante: una tappa alla Vuelta del 1995, al Giro d’Europa del 1956 e al Giro di Svizzera del 1959), più una – fra le altre – da dilettante (la Popolarissima del 1953), che in Veneto ha lo stesso peso di un Mondiale. Ma nulla può restituire tutto quello che Uliana ha dato e tramandato, ha regalato e raccontato, ha sofferto a forza di pedali. L’ultima volta lo scorso aprile, a Feltre, quando per la festa della bicicletta “W la bici viva” è tornato su quei tornanti apocalittici del Bondone: “All’arrivo mi trasportarono in un albergo, mi spogliarono, mi fecero entrare a forza in una vasca, metà acqua e metà sporco, perché prima di me c’erano già stati tre o quattro corridori. Dai piedi mi uscivano due fili di sangue. In discesa dal Brocon, sulla strada fradicia di pioggia, avevo frenato con i piedi consumando prima la suola, poi la lama di acciaio, poi le calze, infine la pelle”. E le sue parole, dolcificate dall’accento veneto, hanno incantato non solo gli studenti delle medie di Fonzaso (l’incontro si è tenuto nella sede della Manifattura Valcismon della famiglia Cremonese), ma anche altri uomini di sport (l’ex pugile Paolo Vidoz) e di ciclismo (Franco Testa e Andrea Peron).
Uliana fu anche maglia nera al Giro d’Italia del 1959: ottantaseiesimo, e ultimo, a tre ore, trenta minuti e cinquantatré secondi da Charly Gaul, l’Angelo della montagna (copyright di Pierre Chany) o la “ballerina delle Dolomiti” (copyright di Giovanni Mosca). A una media di 35,9 all’ora, più o meno 125 chilometri di distacco. Per il mio “Spingi me sennò bestemmio” (Ediciclo), Uliana ha raccontato che “a una settimana dalla fine sembrava che Jacques Anquetil potesse arrivare primo, a cominciare dall’alto, e io, a cominciare dal basso. Un giornale ci fotografò e ci intervistò come se io fossi il primo e lui l’ultimo. Ad Anquetil domandarono come fossi da capitano, e lui – divertito ma serio - rispose che ero buono e generoso. A me domandarono come fosse Anquetil da gregario, e io – per ridere - risposi che era giovane e inesperto, che perdeva le borracce per la strada e quando riusciva a portarmele, aveva messo così tanto tempo a risalire il gruppo che l’acqua era diventata calda”.
Aveva il senso dell’umorismo, cioè una leggerezza di spirito cui non corrispondeva eguale leggerezza nelle salite. “In quel Giro si scalarono Abetone, Vesuvio in cronoscalata, il Pian delle Fugazze, nella stessa tappa Brocon, Rolle e Costalunga, e in quella decisiva Gran San Bernardo, Forclaz e Piccolo San Bernardo, con Gaul aeronautico e Anquetil in crisi di fame”. Anche Uliana fu, a suo modo, un fuoriclasse: “Siccome nelle crono gli ultimi partono per primi, il giorno del Vesuvio partii quasi subito, arrivai in albergo, mi misi a tavola e ordinai una zuppa di pesce. Due miei compagni non resistettero alla tentazione e, nonostante il divieto del massaggiatore, anche loro mangiarono la zuppa di pesce. Ma dovevano ancora correre. E quando corsero, con la zuppa che gli tornava su a ogni pedalata, finirono fuori tempo massimo”.
La vita è una ruota, e Uliana lo sapeva bene: a Vittorio, era stato un’autorità prima nelle due ruote, da corridore, poi nelle quattro, da carrozziere. “E pensare – diceva – che cominciai su una baracca, fatta con gli avanzi di altre biciclette, presi di qua e di là, e la catena continuava a cadere, tanto che erano più le pedalate a vuoto di quelle a pieno”.
I funerali saranno celebrati lunedì alle 16.30 nella Chiesa Parrocchiale Santa Maria Assunziata in Meschio a Vittorio Veneto.
nella foto, Antonio Uliana è il secondo da sinistra
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