Un tempo facevo il giornalista vero, di quelli che stanno molto in tipografia e però sono anche inviati speciali, fanno di tutto e talora fanno anche carriera. Poi è cambiato il mondo, e intendo il mondo tutto e quindi anche il mondo mio. Me lo hanno sfilato da sotto senza che me ne accorgessi e adesso, parlando del mio giornalismo, rischio di fare antiquariato povero e tarlato dai dubbi di quelli che amorevolmente o diabolicamente fanno finta di spartire le mie bellissime cosacce che estraggo dalla memoria e ammollo.
Più volte ho sognato di mettere insieme, per me e magari per tuttoBICI che mi vuole tanto bene, una sorta di antologia dei ricordi miei più speciali. Poi mi accorgo che mi manca un criterio univoco di scelta, e conseguentemente anche di offerta a chi eventualmente è interessato a questa mia acrobazia. Di questa mia riserva mentale comunque mi rendo conto, ed è già un progresso rispetto a quando semplicemente sbatto contro una autodomanda tanto aulica quanto severa: ma di queste cose mie può fregare qualcosa a qualcuno?
A questo punto devo però rassicurare l’eventuale lettore ignoto, giunto sin qui sulla strada impervia e rugosa della mia esposizione/confessione, Non voglio assolutamente procedere, qui e adesso, alla raccolta di cui sopra, e dunque men che mai ho in progetto di rifilarla ad altri, magari approfittando dell’eccessiva democrazia di questa testata. No, mica voglio ammollarvi la storia di quella volta che…, la memoria di quella sera in cui…, l’onanismo addirittura di giocare al gioco di come sarebbero finite le cose se invece… No, ho soltanto l’intenzione di sbattere addosso a chi mi legge (così impara…) la domanda insieme spicciola, assoluta, cosmica, grave e greve nonché senza risposta. Eccola: come mai in questo giocaccio - incentrato su memorie di lavoro semplicemente perché la mia vita è stata essenzialmente di lavoro - mi vengono in mente soltanto storie di ciclismo, e non anche di calcio, di atletica, di nuoto, di sci, di automobilismo, di basket, di pugilato, sport importantissimi che ho seguito in venticinque Olimpiadi e molti Mondiali, tanto per dire anzi per strafare? Come mai pressoché tutto il giornalismo mio da ricordare, sanguigno e affannoso, benedetto e maledetto, è di natura ciclistica?
Come mai ho seguito da Cap Canaveral e da Houston l’avventura spaziale dall’Apollo 11 che nel 1969 ha portato il primo uomo, Neil Armstrong, sulla Luna (scrissi di primato mondiale di salto in alto!), e però quando penso ad Armstrong penso all’altro, Lance, quello “nostro”, quello che che sapete, bypassando Louis il cantante jazz? Come mai ho fatto soltanto cento metri di una gara ciclistica prima di cadere, lussarmi una spalla e smetterla con ogni ulteriore velleità agonistica di quel tipo, eppure quando - spesso - mi sogno trionfatore in una grande prova sportiva sono in bicicletta al Parc des Princes, che neppure i parigini sanno più dove è? Mi rendo conto che in altre occasioni, e spesso su queste pagine, ho cavalcato la domanda, però non così direttamente, e allora la sminuzzo per darle un gusto nuovo, così: come mai in trent’anni di tipografia ho fatto migliaia di titoli di un quotidiano sportivo persino importante e ricordo soltanto quelli ciclistici, e casomai uno calcistico ma legato alla bicicletta? Dico “Din-don-Dancelli” della Milano-Sanremo 1970, quando suonarono a festa le campane per il ciclismo italiano tornato alla vittoria nella Classicissima dopo 17 anni di dominazione straniera, dico “L’uomo è andato sulla Luna ma il ciclismo ha un campione mondiale che si chiama Ottenbros”, dico “Oggi Zandegù vince il Giro delle Fiandre” (e lo vinse, massì).
Nel calcio lo scudetto del mio Torino 1976 venne celebrato dal direttore di Tuttosport, che ero io, con il titolone “Toro, lassù qualcuno ti ama”, sopra i grossi caratteri c’era la fotografia dei caduti di Superga. Fu un mio “furto” al ciclismo: quella scritta, con Gianni al posto di Toro, stava nella mia memoria dal 1966, per dieci anni l’avevo conservata in freezer, era su uno striscione dedicato a Gianni Motta vittorioso nel Giro che si concludeva a Trieste, ed echeggiava il titolo di un favoloso film di boxe, con Paul Newman nella parte di Rocky Graziano, pugile italoamericano davvero esistito, e grandissimo.
E come mai l’altro giorno, ritrovato Domenico Quirico, il giornalista mio amico e collega in tanti anni La Stampa, nel 2013 vittima in Siria di un lungo rapimento che ha fatto epoca, ci siamo messi immediatamente a parlare di ciclismo? Lui maratoneta (anche) mi aveva spinto a correre la maratona, da me fatta e finita due volte: e se io magari, scrivendo dal Tour, l’avessi spinto a scalare, a 67 anni, l’Izoard? Non ho osato chiederglielo, troppo bella l’ipotesi per rischiare un “ma va là”. O forse Quirico mi avrebbe detto di non fargli perdere tempo a parlare d’altro, lui voleva raccontarmi tutto il suo Izoard, avevo letto il suo articolone su a La Stampa ma era chiaro che teneva altri particolari magari proprio per me, e allora pedalando col pensiero proprio di un inedito Izoard gli ho raccontato, quella volta che Balmamion…
P.S.: Balmamion non è un cognome di fantasia, c’è una vicenda sua, molto umana, che non ho mai scritto e che penso non scriverò mai, a Domenico l’ho narrata a voce, isolati noi due nel mezzo di una affollatissima piazzetta di paesello del suo Astigiano.
da tuttoBICI di luglio
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