di Cristiano Gatti -
Stavolta non ho molta voglia di scherzare. Il crollo di Aru merita rispetto. Non c’è niente da ridere.
Cercando di fare la persona seria, dico che forse è meglio così. Fine dell’equivoco. Il campione italiano si guarda allo specchio e vede il profilo della sconfitta. Inutile voltarsi dall’altra parte. Inutile scappare. Inutile raccontarsela. Arriva il momento in cui non se ne può più di chiedersi cosa succede, come mai, perché non funziona niente. Di consumarsi dentro, più di quanto consumi la fatica del lavoro. Correre in bicicletta non è molto diverso da tante altre situazioni quotidiane: noi uomini crediamo di preparare tutto per bene, di prevedere qualsiasi evenienza, di curare ogni minimo dettaglio, poi si va in trincea e la vita rifila le sue sberle.
Fabio Aru è un uomo ancora giovane che per questo Giro d’Italia si è inventato di tutto. Nuova squadra tutta per sé, gruppo di lavoro tutto suo, mesi e mesi via da casa. Questo era l’esame, lo sapeva lui per primo, un autentico esame di maturità per dimostrare che la sua dimensione non è quella della promessa a vita, ma del campione acclamato e conclamato.
Finisce così, nella giornata dei venti minuti, tutto un sogno personale. Senza farla troppo romantica, non bisogna dimenticare che la sua nuova squadra, marchio Beppe Saronni, gli ha finanziato l’impresa con un contratto da quasi tre milioni all’anno. Significa qualcosa. Per dire come questo Giro fosse stracarico di attese, di significati, inevitabilmente di tensione. Sulla bicicletta di Aru, dalla partenza di Israele, c’è questo peso supplementare. Possiamo poi entrare nel tunnel delle spiegazioni e delle colpe, secondo i più soprattutto quella di lasciare Martinelli e l’Astana, ma che Aru sia andato a cercarsi una situazione complessa, stressante, esasperata è fuori discussione. Chi si carica addosso tanta responsabilità deve essere poi pronto ad affrontarla, tutti i giorni, in tutte le condizioni.
Siamo al punto. Più della preparazione fisica, più dei pochi giorni di gara in primavera, Aru paga adesso l’insostenibile leggerezza dell’essere. Dell’essere Aru, cioè leader, cioè bersaglio. Tra i suoi problemi nuovi c’è inevitabilmente quello di stare al centro della scena, con l’ingombro del suo ruolo e del suo ingaggio. Là fuori il mondo va così: un conto è giudicare una giovane promessa, un altro è giudicare una star. Sono le regole del gioco: chi non le sa accettare finisce inevitabilmente alla deriva.
Tocca a lui capirsi e conoscersi. Questo tracollo può indirizzarsi pericolosamente sul binario morto del fallimento rancoroso, ma può anche diventare tanta benzina sul fuoco dell’orgoglio. Di quello positivo, ovviamente.
Tutti noi, non solo Aru al Giro d’Italia, prima o poi andiamo a sbattere (fatte salve le beate eccezioni di quelli nati con la camicia, che al limite sbattono con la Porsche contro il guard-rail). C’è chi si accascia e si incupisce, crogiolandosi subito nel vittimismo e nel complottismo, al grido questo porco mondo ce l’ha solo con me, ma c’è anche chi incassa la bancata e la mattina dopo si rialza migliore. Più forte e più tenace, testimonial vivente della copiosa raccolta di proverbi sul tema, genere solo chi cade si rialza eccetera eccetera. Resta una indiscutibile verità: le difficoltà e gli ostacoli sono anche opportunità. Ci tirano fuori il meglio che neppure sappiamo di avere.
Ovviamente, è quello che l’Italia intera adesso si aspetta da Aru: che tiri fuori il meglio di sé. Il dopo-Nibali era lui fino a due settimane fa. Deve esserlo anche dopo i venti minuti di Sappada. Evitando accuratamente la tentazione tossica di pensare che tutti ce l’abbiano con lui. Voltare pagina, solo questo serve. Reagire significa rinascere. Sono parole grosse, ma non è che il momento sia molto leggero.